«Peggy un'eredità favolosa»

Domenica 15 Settembre 2019
L'INTERVISTA
«Era una donna curiosa, gentile, interessata. L'ultima volta che l'ho vista fu due mesi prima della sua morte. Peggy arrivò nella mia nuova galleria di fotografia, la Ikona Gallery vicino a San Moisè, poco distante da San Marco, insieme allo scrittore americano Edmund White. Era una mattina di settembre del 1979. Voleva rivedere una sua foto, quella scattata da Gisele Freund a Londra, che la ritraeva nel 1939 insieme al critico d'arte Herbert Read. Era sempre gentile e disponibile. Fu l'ultima volta che ci parlammo». A quarant'anni dalla morte, iva Kraus, la sua ultima assistente, a Venezia dal 1973, dopo gli studi a Zagabria all'Accademia di Belle Arti, racconta e rievoca la storia e la vita di Peggy Guggenheim, la grande mecenate americana che ha lasciato il suo inestimabile tesoro d'arte a Venezia e al mondo. Ora iva Kraus è la titolare di Ikona Gallery che da San Moisè si è trasferita in campo di Ghetto Novo.
E proprio a Peggy, il 21 settembre prossimo sarà dedicata la mostra «L'ultima dogaressa» (fino al 27 gennaio) nella quale si ripercorrerà la sua vita e il suo mecenatismo.
iva Kraus, quando ha conosciuto Peggy?
«Era il 1966. Ero una giovane studente croata dell'Accademia di Belle Arti. E già quello, a quei tempi, era un atto di coraggio. Fu in quell'anno che intrapresi un itinerario in Italia. Così, come possono fare tanti studenti. Comunque fu un viaggio bello: Roma, Siena, Firenze, Venezia, la Biennale. E quindi anche la collezione di Peggy Guggenheim. Lei aveva aperto al pubblico la sua casa fin dal 1951, ed era un'occasione che non potevo perdere».
Arrivare a lei comunque non deve essere stato facile...
«Avevo accompagnato un giovane fotografo veneziano che doveva fare delle foto di Peggy per una rivista tedesca. Lui mi prego di andare con lui».
E come fu al primo impatto?
«La ricordo gentile, seduta a suo agio nei suoi grandi spazi, felice di vivere e esser lì in mezzo ai suoi cataloghi, ai suoi quadri alle pareti. Si dimostrò subito disponibile. E una cosa mi colpì soprattutto: era felice di vedere attorno a sè altre persone».
E quindi arrivò la proposta di lavoro...
«Praticamente. Come studente avevo una stanzetta dove ora ci sono gli uffici della Guggenheim Collection. Nel frattempo continuavo i miei studi. Allora mi interessavo di scenografia. Mi disse che cercava qualcuno che potesse curare l'accoglienza dei turisti, fare sorveglianza, che fosse cosciente dell'importanza della collezione e che sapesse raccontarla. In quegli anni Ca' Venier dei Leoni era la sua abitazione. Lei aveva deciso di aprirla al pubblico solo da aprile a novembre. Tre volte a settimana, gratuitamente».
Era una donna esigente?
«Era una persona semplice, aperta, gentile. Non faceva pesare le cose. Era se stessa. Era una donna colta, generosa così come lo è stata tutta la vita. E così si comportava con tanti artisti. Li aiutava, li sosteneva, li incoraggiava. Aveva un approccio americano, filantropia e modernità».
Come era la vita nel suo strano e straordinario palazzo?
«L'ho sempre vissuto come una sorta di Bauhaus, un edificio con un profilo perfetto. Allora era tutto connesso tra gli spazi: la casa, il giardino, l'odore del Canal Grande, il profumo degli alberi, il riflesso della luce. E poi c'erano i quadri. Il colore nella luce. E c'erano gli americani...». (sorride)
Sarebbe a dire?
«C'erano soprattutto turisti americani, molti squattrinati che arrivavano più di tanti altri, attirati dal nome a loro familiare dei Guggenheim. E gli esperti d'arte. Ma devo dire che la collezione non era esposta com'è oggi. Le stanze sul canale erano la sua abitazione; la barchessa era la barchessa. I quadri stavano in un sotterraneo, visitabile, ma ben protetto. Anche il giardino era bello, ma forse era un po' più naturale di oggi».
Secondo lei perchè Peggy Guggenheim ha scelto Venezia?
«È stata una regia celeste. Qui ha realizzato quello che voleva. Dopo tante peregrinazioni a Parigi, a Londra, il rientro negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, lei ha scelto di tornare in Europa. Ha scelto di tornare perchè era una intellettuale capace di dialogare tra le Avanguardie, quella americana e quella europea. Ci ha messo tutta la sua determinazione».
E così, tre anni dopo il conflitto mondiale, nel 1948 in occasione della Biennale d'arte arriva a Venezia.
«Esattamente. Ed è qui che Rodolfo Pallucchini, grande critico d'arte e allora segretario della Biennale, le offrì di allestire una mostra con i suoi quadri nel Padiglione Greco ai Giardini di Castello. Poi mise gli occhi su Ca' Venier dei Leoni, allora disabitato e abbandonato. E trasformò il palazzo nella sua dimora».
Cosa ricorda del periodo trascorso con Peggy?
«Ricordo che spesso si recava al ristorante All'Angelo che era un cenacolo di grandi artisti. E ricordo che si muoveva con la gondola condotta dal suo gondoliere personale. Aveva capito subito Venezia e il suo spirito.
Cosa le ha insegnato la vicinanza con l'«ultima dogaressa»?
«Era una donna naturale, capace di dare input ogni giorno. È stata una antesignana dei musei proprio negli anni in cui per vederne uno, alle volte, bisognava suonare un campanello per farsi aprire. Non mi ha mai detto andiamo a cena insieme oggi, ma ha sempre cercato il dialogo».
Quale è stato secondo lei il messaggio più importante di Peggy?
«Tanti, ma quello più importante credo sia la sua eredità che non è solo nella sua collezione, ma soprattutto nel fatto che, con le sue opere, non ha voluto creare una galleria, ma ha voluto istituire un museo. Non ha scelto il mercato dell'arte, ma ha voluto donare le sue opere al pubblico. Renderle fruibili a tutti. Dire democratico non rende abbastanza, ma il suo è stato un gesto incredibile. Ha dato sostegno alla creatività, ha aiutato gli artisti e ha voluto dar vita alle loro opere. Perchè se queste non sono guardate non sono neanche vive e non sono neanche belle».
Paolo Navarro Dina
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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