Nell'estate del 1959 scoppiò uno scandalo che occupò le prime pagine della

Sabato 14 Luglio 2018
Nell'estate del 1959 scoppiò uno scandalo che occupò le prime pagine della stampa italiana. Durante una crociera a bordo del panfilo di Onassis Maria Callas, accompagnata dal marito Meneghini, fu corteggiata e sedotta dal ricco armatore. Il mondo della lirica si preoccupò per la sorte della sua indiscussa regina. I benpensanti si scandalizzarono di un adulterio così smaccato. Principi e miliardari, ospiti abituali del magnate, reagirono disgustati per la grossolanità plebea del rustico collega, e gli inglesi si irritarono del fatto che a bordo del vascello vi fosse nientemeno che Winston Churchill. Da noi, lo sdegno moralistico si accompagnò alla condanna per la dissolutezza dei capitalisti. Uno solo fece quello che era giusto fare: sorridere su questa favola vuota con l'umorismo del dissacratore. Questo poeta del grottesco era Achille Campanile. Vale la pena di citare una scena della breve commedia che pubblicò sull'Europeo. Meneghini: «Cara Callas, caro Onassis/ non venite a far due passis?» Callas: «No, io schiaccio un pisolino». Onassis: «Ed anch'io dormo un pochino». Meneghini: Questo sonno m'è sospetto/ non vorrei, me poveretto/ che per opera di Onassis/ mezzo matto diventassis». A distanza di sessant'anni queste strofe suscitano ancora una consolante ilarità.
LA VITA
Achille Campanile era nato a Roma il 28 Settembre 1899. Suo padre avrebbe voluto farne un ingegnere navale. Lui rispose che riusciva a mandare a fondo anche le barchette di carta. Esclusa la carriera diplomatica e quella ecclesiastica, si iscrisse a giurisprudenza e si dette al giornalismo. Collaborò con vari quotidiani, distinguendosi subito per quella vena di scanzonato realismo che ne avrebbe fatto il miglior umorista italiano del secolo. Emilio Cecchi, dopo le prime perplessità, ammise di trovarsi davanti a un genio. In effetti, caso raro per uno scrittore così bizzarro, Campanile fu apprezzato da Montale e persino da Pirandello. Lui non si montò la testa. Scrisse commedie, romanzi, sceneggiature, elzeviri e persino reportage sportivi. Fingendo di non credere in nulla ironizzò su tutto, rispondendo con la battuta lieve alle percosse pesanti della vita.
IRRIVERENZA
Nel romanzo del 59, Il povero Piero, strapazzò la morte e il cattivo uso che ne fanno i sopravvissuti, che quando rievocano il defunto lo fanno solo per parlare di sé stessi. Neanche Oscar Wilde era arrivato a tanta irriverenza.
Tra le due guerre la sua produzione fu immensa, e quasi tutta di qualità. Corteggiò il surrealismo senza essere surrealista, derise le convenzioni borghesi pur proclamandosi conservatore, ironizzò sull'amore mantenendosi sentimentale, e scherzando sul sesso pur rallegrandosi di un effervescente vigore che avrebbe mantenuto nella sua arzilla senilità.
PARODIE
Come Longanesi e Flaiano fustigò in parodie corrosive i vizi degli italiani senza mai dissolvere questo disincanto nel cinismo amaro dei suoi colleghi. Usò il paradosso, giocando sapientemente sulle ambiguità lessicali. Leggiamo questo dialogo tra Barista e Cliente: Barista: «Acqua minerale, signore?» Cliente: «Naturale». Barista: «Allora naturale». Cliente: «Ho detto minerale». Barista: «No, mi scusi, lei ha detto naturale». Cliente: «Intendevo, naturale acqua minerale. Non le sembra naturale che io beva acqua minerale?» E così via, in un crescendo di battute metafisiche. Non erano solo manipolazioni di parole: erano la rappresentazione umoristica delle ordinarie antinomìe discorsive.
Come nel dialogo tra Paganini e la contessa sorda. La nobildonna gli chiede un bis, ma il violinista risponde che Paganini non ripete. La contessa non sente, e insiste per la replica. E Paganini, senza accorgersi di impantanarsi in questa melassa che tanto eccitava Trasimaco e gli altri sofisti risponde esasperato: «Le ripeto che Paganini non ripete. Quante volte devo ripeterglielo?» In queste parole c'è tutto il paradosso del Cretese, che affermava di non dire mai la verità. Schiere di filosofi si sono affannati per risolvere questa contraddizione apparentemente insolubile (perché se l'affermazione del Cretese fosse vera, si smentirebbe da sé). Campanile ci riusci sorridendo, dimostrando, con Pascal, che l'unico modo di filosofare è farsi gioco della filosofia.
ANGLOSASSONE
In un Paese dove la comicità tende spesso a degenerare nel volgare e nei luoghi comuni, Campanile portò quell'humor anglosassone che troviamo in Jerome K. Jerome e in P.G. Wodehouse. Battute come questa: «Io vado all'arcivescovado, e tu?» «Dall'arcivescovengo» hanno probabilmente ispirato quelle freddure che avremmo ritrovato in film come Invito a cena con delitto, dove Alec Guinness, il maggiordomo di nome Bensignora, corregge Maggie Smith. Vale la pena di ricordar la sequenza. Lei: «Grazie Ben». Lui: «No signora, non Ben, Bensignora; Bensignora Jamesignore». Lei: «Vuol dire che si chiama Bensignore Jamesignora?». Lui: «Si signora. Bensignore Jamesignora» Lei: «Oh Signore!» Lui: «Quello era mio nonno signora. Ohsignore Jamesignora». Dobbiamo alla genialità dei nostri traduttori la versione italiana che ha mantenuto il profumo dell'originale.
RIVOLUZIONE CULTURALE
Durante la nostra funesta rivoluzione culturale, Achille Campanile fu volutamente dimenticato dalla supercigliosa critica politicamente impegnata. Ma le autorevoli recensioni di personaggi come Carlo Bo e Umberto Eco ne favorirono la rinascita. Vinse numerosi premi letterari, e nel 1975, con la sua Vita degli uomini illustri, divertì se stesso e noi a dissacrare alcuni mostri sacri della Storia (e della leggenda) da Attilio Regolo a Furio Camillo, da Socrate a Manzoni. Morì a Lariano, vicino a Velletri, il 4 Gennaio 1977, di infarto cardiaco. Tutto sommato ebbe una vita felice, e smentì Mark Twain secondo il qual la segreta fonte dell'umorismo non è la gioia ma il dolore. «Non c' è umorismo in Paradiso», affermò il grande scrittore americano. Chissà se Campanile l'avrà contraddetto anche lì.
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