Morosini, processo al Capitano

Giovedì 17 Settembre 2020
Morosini, processo al Capitano
di Bruno Buratti*
Il 19 settembre di 350 anni fa, nel 1670, il nobile Antonio Correr poneva in stato di accusa di fronte al Maggior Consiglio, con una violenta arringa, Francesco Morosini. La ferita della perdita di Candia, costata alla Serenissima non meno di 30.000 uomini, tra cui 280 esponenti del patriziato, e l'esorbitante somma di 125 milioni di ducati, era ancora sanguinante e questa iniziativa dava inizio ad una delle più clamorose inchieste giudiziarie, destinata ad infiammare gli animi e riempire le cronache del tempo.
I capi di accusa rivolti al prestigioso comandante, protagonista dell'eroica difesa di Candia e responsabile della sua sofferta cessione al turco, sono gravissimi: codardia o connivenza con il nemico, irregolarità nella nomina a procuratore soprannumerario di San Marco, di cui si chiedeva la revoca e malversazione di fondi pubblici.
Ma perchè un rappresentante della nobiltà veneziana minore, mai assurto agli onori della cronaca, prende una iniziativa così clamorosa e dirompente nei confronti di uno degli uomini piu' in vista della città, investito del comando supremo in guerra ed appartenente ad un casato tra i più illustri?
Dobbiamo fare un passo indietro e risalire agli anni del conflitto.
Il 13 febbraio 1661 Francesco Morosini, all'epoca capitano generale da mar, aveva ordinato al provveditore d'armata Antonio Barbaro, esponente di un ricco e noto casato, di presentarsi entro tre giorni per difendersi da quanto era risultato nella construttione del processo formato col rito di secretezza sopra il fatto che seguì il 17 settembre (1660) contro il campo e sotto la fortezza de' Turchi di riscontro a Candia. L'accusa era di non aver saputo guidare le truppe in occasione del tentativo di riprendere la città de La Canea, naufragato in un insuccesso a causa dell'indisciplina degli uomini, abbandonatisi al saccheggio dell'accampamento del nemico, che ne approfittava per contrattaccare e metterli in rotta. Il Barbaro rifiutò il giudizio del Morosini e si appellò alla giustizia di Venezia, accusando a sua volta il suo superiore di peculato. La Quarantia criminale finì per assolvere entrambi i contendenti.
Il Morosini, nominato capitano generale per la seconda volta il 2 gennaio 1667 in vista dell'ultima e più terribile fase della guerra, si trovò poi nuovamente a fare i conti con Antonio Barbaro, provveditore generale dell'isola, con il quale si rinnovarono presto le precedenti ragioni di contrasto, per la scelta di Francesco Morosini di privilegiare la difesa di Candia, che il suo antagonista viveva come un'ingerenza, rispetto alla guerra marittima, sbarcando dalle galere parte dell'equipaggio e dell'artiglieria.
Dunque la mano di Antonio Correr era armata dal Barbaro (i due erano amici) e all'origine dell'iniziativa non potevano essere estranei i forti dissapori che avevano opposto il secondo al Morosini. Ma vi erano anche ragioni più profonde. L'accusa sollecitava un confronto tra opposte visioni di conduzione dello Stato, cui facevano capo correnti diverse del patriziato: ci troviamo dunque di fronte ad uno scontro politico, sollecitato per via giudiziaria.
E poi la perdita di Candia era un nervo scoperto e molti ne imputavano la responsabilità al Morosini, che pure aveva strappato ai turchi condizioni fin troppo onorevoli prima di cedere la piazza il 6 settembre 1669, per aver negoziato la resa quando stavano per giungergli importanti rinforzi.
Da uno studio di Andrea Pelizza dell'Archivio di Stato risulta che gli inquisitori, sempre attenti all'osservazione degli umori' che correvano in città, nel loro archivio depositarono alcuni dei numerosi pamphlet anonimi allora diffusi tra la popolazione, nei quali si polemizzava sull'atteggiamento tenuto nel corso della cessione dell'isola di Candia. Venivano inoltre quotidianamente repertoriati numerosi biglietti giunti anonimamente a Palazzo Ducale a favore o contro Francesco Morosini.
Ma torniamo al processo. Fu nominato un inquisitore, Francesco Erizzo, per valutare la fondatezza delle accuse e il patriziato si divise fra colpevolisti e innocentisti; il dibattito si protrasse per mesi e la difesa fu affidata a Giovanni Sagredo, appoggiato da un fine diplomatico del calibro di Michele Foscarini. I due ebbero buon gioco nel sostenere che la resa era inevitabile, poichè la defezione dell'alleato francese e l'incertezza sulla data di arrivo dei rinforzi esponevano la sempre più debole guarnigione veneziana, ormai ridotta a soli 4.000 uomini in grado di combattere, al rischio che un nemico superiore almeno dieci volte nel numero si rendesse conto del suo effettivo stato e conquistasse d'assalto la città, con tristi conseguenze per la popolazione e per la flotta all'ancora nel porto. Quanto all'accusa di malversazione, emersero effettivamente ammanchi di cassa, ma anche patrizi coinvolti nelle ruberie, le famiglie dei quali non tardarono ad esercitare pressioni per coprirne la condotta. Nulla di concreto emerse comunque a carico del Morosini, che piuttosto fu più volte costretto ad anticipare di tasca propria la paga dei soldati della guarnigione, in attesa che giungessero i fondi da Venezia. I numerosi funzionari chiamati a testimoniare si espressero, del resto, tutti in favore della sua correttezza. La richiesta di annullamento della nomina del Morosini a procuratore soprannumerario di San Marco, cadde infine con maggioranza schiacciante. Francesco Morosini venne cosi completamente scagionato da tutte le accuse.
Tornerà alla vita politica, pur lontano dalle luci della ribalta, assumendo incarichi anche fuori dalla citta', in terraferma. Avrà quindi la sua rivincita e la sua consacrazione dopo 15 anni, su un terreno a lui ben più congeniale dell'agone politico: il campo di battaglia, dove gli sarà affidato per la terza e, poi, per la quarta volta il comando supremo in occasione della guerra di Morea. Con il dogado, cui sarà eletto all'unanimità e al primo scrutinio il 3 aprile 1688, giungerà a riassumere nella sua persona le massime cariche, militare e politica, della Repubblica, caso unico nella storia della Serenissima.
E Antonio Barbaro? Venuto a morte nel 1679, la sua parabola sarà celebrata nel marmo dallo scultore fiammingo Giusto Le Court sulla facciata di Santa Maria del Giglio, con assai maggior fasto di quanto non sarebbe poi toccato al Morosini, che più modestamente dal 1694 riposa sotto la navata centrale di Santo Stefano. Ma il comando supremo e la gloria di una grande impresa, che tanto aveva rivendicato contro il suo illustre antagonista, non li avrebbe ottenuti mai.
**Gen. C.A. Comandante Interregionale dell'Italia Nord
Orientale Guardia di Finanza
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