L'ANNIVERSARIO
«Al via, sento in me lo scoccare di un attimo storico. Sono

Domenica 22 Settembre 2019
L'ANNIVERSARIO
«Al via, sento in me lo scoccare di un attimo storico. Sono le ore quattordici e minuti trenta dell'undici settembre millenovecentodiciannove». Un 11 settembre, un altro, ovvero quello che segna l'inizio dell'impresa di Fiume, con in testa Gabriele D'Annunzio. Queste parole vengono annotate a San Giuliano, al tempo terminal di una Venezia ancora senza ponte automobilistico, le scrive Riccardo Frassetto, tenente dei granatieri di Sardegna, romano di nascita, ma di famiglia originaria di Crocetta Trevigiana (sarebbe diventata «del Montello» alcuni anni più tardi). Senza di lui l'impresa fiumana o sarebbe stata molto diversa o, forse, non ci sarebbe stata affatto. È Frassetto «l'ufficiale di collegamento» tra i legionari riuniti a Ronchi, e il Vate, che sta nella sua Casetta Rossa di Venezia. È Frassetto che fa da messaggero, che fa la spola tra Venezia e Fiume, è Frassetto, in definitiva, che convince D'Annunzio, anche se, c'è da dire, che il poeta alato non si fa pregare granché per convincersi.
Un pronipote di Riccardo Frassetto, Giorgio, che vive a Conegliano, ha scritto un libro, curato anche dalla sorella Franca e dal fratello Renzo, dal titolo Zio Riccardo. La vita, le storie, le imprese che esce in settembre, centenario dell'impresa, per le edizioni Antiga, impresa tipografica che, neanche tanto incidentalmente, ha sede proprio a Crocetta, oggi sì del Montello. Riccardo Frassetto avrebbe in seguito pubblicato due libri dedicati a quegli eventi: I disertori di Ronchi (1926) e Fiume o morte (1940).
Allora torniamo al 1919, alla fine di agosto: siamo a Ronchi, ovviamente non ancora «dei Legionari» e un gruppo di dieci giovani ufficiali (al tempo di sarebbe detto di «ufficialetti», sottotenenti e un paio di tenenti. Sono reduci da Fiume da dove è stato deciso che le truppe italiane se ne andassero, ma hanno deciso che a Fiume sarebbero invece tornati. Anzi, non se ne sono neanche andati subito con gli altri, ma si sono nascosti a casa di una signora, Nicolina Fabris, detta la mamma dei granatieri, una donna che ha avuto un ruolo di primo piano nell'impresa altrimenti testosteronica assai di conquistare il capoluogo del Quarnero.
L'ACCORDO DEI SETTE
«Girovagando per Ronchi, capitiamo in un punto dove il nostro fiuto non tarda ad avvertire odor di osteria», scrive Frassetto. I militari entrano e ordinano benzina, ovvero, nel gergo soldatesco del tempo, vino a volontà. E così, ben ben carburati, si riuniscono in un locale dell'osteria il cui accesso viene chiuso agli estranei. «In quella stanza che mai si sarebbe sognata di diventare il tempio della religione fiumana, il giorno 31 agosto 1919, riuniti in solenne assemblea, prestiamo giuramento». Giuramento che poteva essere altrimenti? si chiude con la formula «Fiume o Morte». «Il giuramento viene letto a voce alta, tenendo la mano destra sul pugnale e, indi, sottoscritto. Siamo in dieci, ma non tutti se la sentono di firmare». Tre mollano, in effetti quel che sta accadendo è tecnicamente diserzione. Sottoscrivono in sette, quelli che passeranno alla storia come «i sette giurati di Ronchi», ecco i loro nomi: i tenenti Riccardo Frassetto e Vittorio Rusconi, i sottotenenti Claudio Grandjacquet, Rodolfo Cianchetti, Lamberto Ciatti, Enrico Brichetti, Attilio Adami.
Serve un capo, si pensa a Ricciotti Garibaldi parentela significativa che però declina. Comincia il lavorio con D'Annunzio: Grandjacquet va a Venezia e porta a D'Annunzio i testi dei giuramenti firmati dai sette. Il Vate accetta e dice che sarebbe arrivato a Ronchi dopo un paio di giorni. Invece non si fa vedere. Che succede? Grandjacquet questa volta va a Fiume ed è Frassetto a partire per Venezia. Gli ufficiali si salutano nella stazione di Monfalcone, mentre i due treni partono quasi contemporaneamente in direzioni opposte.
D'Annunzio spiega a Riccardo Frassetto di aver avuto in visita il generale Francesco Grazioli e di non aver certo potuto scaricare l'alto papavero in quatto e quattr'otto. Comunque ribadisce l'impegno a mettersi a capo dei legionari riuniti a Ronchi. Ma bisogna aspettare tre giorni perché il Comandante sostiene di essere superstizioso e l'11 è il giorno della Beffa di Buccari. Intanto spedisce a Frassetto a Fiume con una lettera per Nino Host-Venturi gli dice di tornare a Venezia con la risposta (Host-Venturi, irredentista fiumano, volontario di guerra, in aprile aveva formato nel capoluogo quarnerino una Legione fiumana clandestina).
LE ULTIME ORE
D'Annunzio presta a Frassetto vettura e autista con quest'ultimo che si scapicolla lungo le strade sterrate del tempo. «Il contachilometri segna i novanta, i novantacinque e, in qualche momento, perfino i cento all'ora» annota terrorizzato Frassetto. Comunque arrivano a Fiume, vanno a casa della signora Fabris dove nascondono l'auto e si procurano abiti borghesi. Il tenente dei granatieri va da Nino Host-Venturi, ufficiale degli Arditi, che però si mostra abbastanza indifferente alla lettera di D'Annunzio. «Che ardito sei se non ardisci?» pensa dannunzianamente Frassetto. Di nuovo in auto, questa volta con un rianimato Host-Venturi, e sosta a Ronchi, dove c'è il problema di reperire gli autocarri. Verranno utilizzati quelli del non lontano autoparco di Palmanova, dove il titubante comandante si autoassolve grazie a un ordine poco genuino del suo superiore. Comunque, finito l'impegno palmarino, Frassetto riparte per Venezia.
Arriva alla Casetta rossa e sorpresa il Comandante ha la febbre alta. Lo riceve disteso a letto, con una pezzuola bagnata sulla fronte (non c'era il paracetamolo, al tempo) e gli dice che comunque all'indomani sarebbero partiti. «Per tutta la notte, dalle finestre spalancate della mia camera d'albergo, entrano i rintocchi gravi che i campanili di Venezia si trasmettono l'un l'altro ogni ora», osserva il tenente (per la cronaca, l'albergo in cui alloggia è la pensione Accademia).
Comunque il giorno dopo D'Annunzio si sente un po' meglio e alle due una lancia mandata dall'ammiraglio comandante di Venezia (sapeva o non sapeva a cosa si stava apprestando il Vate?) imbarca D'Annunzio, Frassetto, i tenenti piloti Guido Keller e Simoni, e il tenente medico Luigi Sanguineti. Il Vate lascia una lettera indirizzata a Benito Mussolini: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi».
La lancia li porta a San Giuliano dove li attende la Fiat 501 con l'autista. «Al via, sento in me lo scoccare di un attimo storico. Sono le ore quattordici e minuti trenta dell'undici settembre millenovecentodiciannove». Il resto, è storia nota.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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