IL PERSONAGGIO
Cancelliere di giorno, cantastorie di notte. La doppia vita di

Martedì 21 Novembre 2017
IL PERSONAGGIO
Cancelliere di giorno, cantastorie di notte. La doppia vita di Luigi Maieron fino a pochi mesi fa era conosciuta solo in Friuli, dove da anni riscuote successo come cantautore, poeta e scrittore in marilenghe. Poi l'incontro, che ha cambiato la sua vita, con Mauro Corona. Molte le affinità tra questi due figli della montagna, dal carattere duro, ma dall'animo sensibile. Avevano molto da dirsi. Lo hanno capito gli editor di Chiarelettere che li hanno fatti incontrare in una baita sperduta e lasciati lì con buone scorte di vino ed un registratore acceso.
CON MAURO CORONA
È nato Quasi niente, il libro-dialogo tra lo scrittore di Erto e il cancelliere di Cercivento. In pochi mesi oltre 70mila copie vendute. Ed ha già un contratto per un altro libro. Tra Mauro e Gigi parole in libertà, una sorta di catarsi a due. Le vite, le storie, gli incontri, gli sbagli, gli aneddoti, le citazioni, i progetti, le famiglie, gli amori, i dolori. Tutto racchiuso nella filosofia di quel titolo minimalista Quasi niente che, agli occhi di chi partiva da niente, è già molto. Basta sapersi accontentare e capire il vero valore della vita.
Luigi Maieron la vita ha cominciato a masticarla presto. «Sono cresciuto in una famiglia singolare. Tutti musicisti. Mia madre mi ha avuto a 15 anni e mi portava in giro per le serate nella sale da ballo dove si esibiva. Mi caricava a cavallo della sua Gilera, naturalmente senza casco. Respiravo polvere in strada e fumo nelle balere. Credevo che quel mondo strano, fatto di artisti di strada, fosse la realtà. Da grande ho scoperto che la mia infanzia non era uguale a quella delle altre famiglie. Io sono cresciuto un po' strano».
CANCELLIERE IN TRIBUNALE
Il lavoro invece non era strano, cancelliere nei tribunali del Friuli. Un ruolo serio, che poco si adatta al menestrello che canta le storie di vita. «Probabilmente è servito a darmi tranquillità. In fondo per caratteristica carnica, e un po' per il mio tipo di infanzia, ho sempre avuto una dose di insicurezza e fragilità. Un posto fisso era un atto di prudenza. Anche se non era la mia vocazione. Mi ha fatto maturare. Ci sono stati anni un cui non vedevo l'ora di tornare a casa e chiudermi nel mio laboratorio-studio, dove mi sentivo libero. Ascoltare il tuo cuore, quella parte di te che aveva voglia di esprimere qualcosa. Diceva Conrad: Come faccio a spiegare a mia moglie che mentre guardo dalla finestra sto lavorando».
CON LA CHITARRA IN MANO
Al lavoro come la prendevano? «Spesso non mi prendevano sul serio. Eri sempre il cantante che alla sera andava in giro con la chitarra. C'è un detto friulano riferito agli artisti: Ma tu cosa fai? Sai canto, scrivo. Sì, ma di lavoro cosa fai? Fare musica non veniva considerato un lavoro. Anche da parte dei colleghi c'era sempre questo sguardo sospetto. Nel lavoro ho cambiato molte funzioni. Tutti i magistrati con cui ho collaborato mi affidavano compiti di collegamento con le persone. Gente con forti disagi: morti, incidenti, traumi, ragazze che avevano subito violenze. Spesso parlavo io invece del magistrato. Allora sì il lavoro mi piaceva, riuscivo a farlo bene». Faceva il mediatore tra magistrati e testimoni. Un dialogo tutto in friulano. La lingua delle canzoni di Maieron.
ITALIANO E FRIULANO
«L'italiano lo impari attraverso la didattica ed ha un suo formalismo, i suoi codici. Una struttura precisa che non lascia spazio alla fantasia. Il friulano è qualcosa di più diretto, che arriva in modo profondo, più vero. E' legato alla vita. Ha una capacità espressiva che l'italiano non può avere. Faccio un esempio pratico. In italiano per definire chi ha bevuto parecchio si dice che è ubriaco. Stop. In friulano c'è una scala di espressioni che rende molto di più: pontat (brillo), cibiscul (brillo forte), madur (sragioni, ma fisicamente resisti ancora), cioc (cominci a disarticolarti fisicamente), cioc madur (crollo fisico e mentale), cioc disfat (ubriaco all'ultimo stadio). Io quando scrivo uso la lingua italiana portandomi dietro il friulano».
IL DOLORE DI UN PADRE
Ma anche il dolore è fonte di ispirazione. Le storie che Maieron canta parlano di esistenze sofferte, soprusi, ma esprimono anche una gran voglia di vivere. «Quando noi siamo scomodi nella vita riusciamo a percepire molte più cose. Chi di noi non ha dei dolori custoditi nel suo cuore. Mia nonna diceva: Le lacrime puliscono gli occhi e fanno vedere meglio. Una sorta di collirio dell'anima. Lo uso anch'io. Troppe bollicine non vanno bene per l'arte. La praticità quotidiana del lavoro mi ha forgiato. Una palestra di vita applicata alla scrittura».
Nel cuore di Maieron ci sono cicatrici fresche. Da pochi mesi ha perso una figlia. Ne parla con pudore, questa è una storia che fatica a condividere. «Una sofferenza partita da lontano. Giada faceva l'avvocato a Milano, una sera di dieci anni fa è stata travolta da un tram. La malattia ne è stata la conseguenza. Ti curano, però arrivano le complicanze e parte il conto alla rovescia. È stato massacrante. Mi ha salvato ragionare. Davanti a drammi simili non puoi non crearti una struttura di pensiero che va oltre te stesso. La vita pretende da noi umiltà. A volte ci lamentiamo perché abbiamo un brufolo sul naso e non capiamo quanto siamo fortunati ad avere solo un brufolo».
IL RICORDO DI GIADA
Anni di dolore che sgorgano dall'animo di un padre, che ha raggiunto il successo ma non può condividerlo con la figlia. «Per i primi cinque pensavamo di farcela, poi abbiamo cominciato a capire che le complicanze stavano prendendo il sopravvento. Allora cambia tutto. É una situazione che ti porta a mettere in discussione l'esistenza. Che senso ha il successo personale se devi convivere con un'assenza di questo tipo? É un'angoscia che resta nel mio privato. Il dolore è fortissimo, immenso. Naturalmente quando mi presento al mondo, non per una forma di ipocrisia, ma di rispetto per gli altri, mostro serenità. E quello che vorrebbe Giada. Anche se rinuncerei a tutto ciò che ho per riavere mia figlia. Darei la mia vita per Giada».
Maieron si commuove. Guarda i monti carnici dalla finestra di casa sua a Zuglio, paesetto di duecento abitanti, vicino a Tolmezzo. Scherza: «Pensa, qui ci sono meno persone che in un condominio in città». Poi torna serio. «Sono discorsi più grandi di me. Io ho pudore a parlarne. Ma sento che Giada mi manda segnali forti. Segnali rassicuranti. Certo si crea un conflitto con lassù. Io ricordo che mio nonno quando si arrabbiava per qualcosa di grave buttava il cappello per terra e diceva Crist, alzando i pugni verso il cielo. Era un riconoscimento a Dio, ma anche un rimprovero per non averlo aiutato. Litigava con il cielo. Io ho preso da mio nonno e chiedo a Crist, perché?»
Vittorio Pierobon
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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