Lo spettro dell'uscita senza accordo e l'ipotesi di un secondo referendum

Martedì 11 Dicembre 2018
LO SCENARIO
LONDRA Guardiamo ai punti fermi: il Parlamento va in vacanza dal 20 dicembre al 7 gennaio e, secondo la premier Theresa May, in base al decreto sull'uscita dalla Ue i deputati devono essere aggiornati entro il 21 gennaio prossimo. Già quest'ultimo aspetto è contestato da alcuni, che sostengono che non ci sia nessun obbligo di questo tipo in un contesto talmente fluido che gli scenari possibili sono innumerevoli. Il primo, il più temuto e dannoso e l'unico contro cui il Parlamento potrebbe muoversi con una certa compattezza, riguarda il famigerato no deal, quello con cui il Regno Unito si troverebbe a gestire gli scambi con l'Unione europea attraverso le regole del WTO, con dazi e tariffe, conseguenze economiche gravi e nessuna soluzione per l'Irlanda. Alcuni Brexiteers come Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg, la cui retorica euroscettica non contempla alcun compromesso con Bruxelles, considerano il no deal una strada percorribile, e il fatto che da anni siano sempre sul punto di lanciare un attacco alla May non permette di escludere che prima o poi agiscano davvero, con conseguenze gravi.
I BLOCCHI
Più volte dai banchi del Parlamento si sono alzate voci, come quella del ministro Amber Rudd o del laburista Hilary Benn, che dicono che Westminster farà di tutto per impedire questa possibilità, ma la situazione è talmente volatile e imprevedibile che al momento tutto è possibile. Il Labour vorrebbe nuove elezioni, ma ha rinunciato all'idea di spingere per un voto di sfiducia nei confronti della May, visto che come sanno bene anche i Tories ribelli, nel caso la premier sopravvivesse risulterebbe intoccabile per un anno.
E poi l'ipotesi di trasferire la confusione attuale in una campagna elettorale tra due partiti spaccati è obiettivamente irta di pericoli, almeno al momento. Un altro scenario che non si può escludere ma che risulta ancora prematuro è quello di un secondo referendum. Piace molto ad un gruppo trasversale di deputati ma che deve ancora scontrarsi con tre fattori: i sondaggi, che sono più a favore del remain rispetto al passato ma che non hanno ancora quella nettezza che, per chi ancora ci crede dopo le delusioni e le illusioni degli ultimi anni, possono far prendere una decisione così delicata; il fatto che il Labour non è pronto a fare campagna per il remain perché ha un leader euroscettico e tre milioni di elettori pro-Brexit; l'opportunità, da un punto di vista democratico, di ripresentare lo stesso quesito allo stesso elettorato sperando in un risultato diverso. Non è detto che non ci si arrivi, ma per ora la strada maestra sembra essere quella di vedere cosa succede al testo negoziato dalla May e da Bruxelles. La decisione stessa di rinviare il voto avrebbe dovuto essere sottoposta al parere dei deputati, con il rischio di non superare neanche quell'ostacolo, ma la premier, con la decisione di rinviare, spera di compattare il parlamento grazie a fattori esterni come un assist di Bruxelles e una pressione sui mercati che già ieri si percepiva, forte del fatto che la Ue non concederà mai di più a un suo rivale. Potrebbe concedere di meno, questo sì, se si tornasse all'ipotesi di una Brexit più soft, ma a quel punto verrebbe meno la prima delle linee rosse' fissate due anni fa: lo stop all'immigrazione.
Cri.Mar.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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