Le donne e la Grande Guerra nel libro di Raffaella Calgaro

Martedì 26 Aprile 2022 di Alessandro Marzo Magno
Le donne e la Grande Guerra nel libro di Raffaella Calgaro
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THIENE - Gli uomini vanno in guerra, le donne e i bambini vanno profughi: è una costante di tutti i conflitti, che si sia oggi in Ucraina o poco più di un secolo fa tra il vicentino italiano e il Trentino austriaco. Proprio della profuganza femminile e infantile si occupa il libro di Raffaella Calgaro, Tutta un'altra storia. La Grande Guerra raccontata dalle donne e dai bambini, edito da Marcianum Press e appena arrivato in libreria. Calgaro vive tra il vicentino e Venezia, laureata in Storia a Ca' Foscari, oggi insegna italiano e storia nell'Istituto tecnico tecnologico Giacomo Chilesotti, di Thiene. Si interessa di didattica della storia, ha scritto alcuni romanzi storici; per questo libro ha utilizzato diari originali e interviste realizzate nei paesi dell'Altopiano di Asiago, della Val d'Astico e della Val Posina, negli anni ottanta e novanta del Novecento, quando erano ancora vive le ultime donne che avevano vissuto le esperienze di guerra.
Subito dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, erano state sfollate dai paesi a ridosso del confine tra Regno d'Italia e Impero d'Austria circa 4 mila persone.

Ma è un anno dopo, con la Strafexpedition del maggio-giugno 1916 che la situazione precipita. Lasciano la zona del confine un po' meno di 200 mila persone: metà dalla parte italiana, metà dalla parte austriaca. Chi sfolla in Italia si sparpaglia per la penisola, qualcuno addirittura emigra in America, gli sfollati in Austria vengono mandati in appositi campi profughi, come quelli di Wagna o di Braunau am Inn, il paese passato alla storia per aver dato i natali ad Adolf Hitler.


LE TRAGEDIE
«Ci sono giunte testimonianze», osserva Calgaro, «di come durante la fuga molte donne abbiano perso i loro bambini. Spesso i figli sono stati separati dalle madri a causa della folla e della confusione. Alcuni sono stati ritrovati dopo qualche giorno, altri addirittura alla fine della guerra. C'è stato il caso di una mamma che ha perso quattro figli perché li ha caricati in un treno e il convoglio è partito, lasciandola a terra. Una mamma dell'altopiano di Asiago aveva perso una bambina di 6/7 anni e l'ha recuperata dopo la guerra, in un orfanotrofio. Ci sono però anche casi di mamme che nella confusione e nella fretta si sono dimenticate i bambini, nella culla, nella stalla, e sono tornate indietro disperate a riprenderseli. Tutti i racconti, invariabilmente, riferiscono che questi bambini dormivano: un tratto tranquillizzante utile pure per riappacificarsi con la propria coscienza.


LE MEMORIE
Calgaro spiega che queste testimonianze sono «restie, sussurrate» e una volta finita la guerra e tornati a casa, non se ne parlava più. Così come nessuna donna ha mai riferito di bambini morti, eppure qualcuno avrà pur riportato conseguenze fatali durante questi eventi tanto concitati e pericolosi. Qualche violenza dev'essere avvenuta se un gruppo di donne riferisce di essere rimaste addossate a una porta tutta la notte per impedire a uno o più uomini di entrare. Esperienze estreme, come quella riferita da Chiara Dal Prà: «Noi siamo stati sfollati a Longare e lì ci hanno dato l'acqua per tre giorni e poi hanno messo i lucchetti ai pozzi: non volevano dare acqua ai profughi perché erano traditori della patria. Immaginarsi, avevamo lasciato in casa morti, feriti, soldi, tutto; non avevamo neanche chiuso la porta. Allora eravamo costretti ad andare al Bacchiglione, ma caspita veniva già l'acqua rossa dal fronte, mai più si faceva da mangiare con un'acqua simile; c'erano giù pezzi di orecchie e cose del genere. A quel tempo mio fratello di sedici anni e mezzo era già volontario negli arditi e altro, che poi è andato in Francia, negli alpini».


LE DICERIE
Queste fiumane di persone male in arnese, spesso sporche e lacere, non sempre erano ben viste dalle popolazioni dei luoghi dove giungevano. «Se non stai buono, ti faccio mangiare dei profughi» si diceva ai bambini piccoli per farli star buoni. Un caso particolare è quello di Casotto, oggi frazione di Pedemonte, in provincia di Vicenza, ma fino al 1929 comune in provincia di Trento e quindi nel 1915 parte della monarchia asburgica. Qualcuno fugge in Italia, ma la gran parte degli abitanti vengono sfollati a Caldonazzo, da dove prendono il treno per trasferirsi in un campo profughi in Austria, a Braunau am Inn. «Avevo 13 anni», riferisce Teresa Sartori, «quando sono giunta nelle baracche di legno. Quanta confusione! Il campo a noi assegnato era in riva al fiume Inn, dalla parte austriaca che guardava la riva germanica. Per noi profughi era vietato attraversarlo, ma ci era permesso di uscire dal nostro campo per andare a lavorare e per andare in altri campi profughi dove erano rifugiati altri paesani. Per ogni famiglia era stata stabilita una baracca numerata. Noi avevamo la numero 47. Le baracche erano disposte con ordine in lunghe file. Gli austriaci che abitavano fuori dal campo erano gentili con noi e ci rispettavano. Ricordo che non ci consideravano austriaci del sud Tirolo come eravamo, ma ci chiamavano italiani».


I CIMBRI
Qui emerge la particolarità del confine, con le sue popolazioni miste. Sorte opposte tocca ai cimbri dell'Altopiano, che parlano un dialetto altotedesco e ai quali capita di essere bollati come «todesc». L'autrice ha dedicato un intero paragrafo alle donne cimbre che, oltre alle difficoltà di tutte le altre, si ritrovavano di fronte alla necessità di imparare una lingua nuova l'italiano sconosciuta nei borghi montani dove vivevano. La profuganza ha significato una nuova dimensione per molte di queste donne, in precedenza chiuse in casa e costrette a vivere in una realtà che spesso non andava oltre alla piazza del paese e alla fontana per prendere l'acqua. Ora devono svolgere lavori da uomo, e non solo operaie in fabbrica, attività non sconosciuta in zone dove parecchie donne potevano andare a lavorare nei lanifici di Schio, ma anche lavori di picco e badile, attività pesanti che queste donne svolgevano per mantenere le famiglie, quasi sempre numerose: non era infrequente che avessero 5/6 figli e con loro c'era sempre qualche anziano. Gli episodi che, tuttavia, i bambini di allora ricordavano sempre erano quelli di solidarietà, di rottura delle barriere tra amici e nemici. Come il caso del soldato austriaco prigioniero degli italiani che viene legato a un palo per punizione. La mamma non dice niente, ma consegna alla bambina una pignatela di brodo e la fa portare dalla figlia al soldato, per ristorarlo almeno un po'.
 

Ultimo aggiornamento: 11:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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