Il banco vuoto dei bambini ebrei, nuovo libro di Maria Teresa Sega

Martedì 4 Dicembre 2018 di Angela Pederiva
Il banco vuoto dei bambini ebrei, nuovo libro di Maria Teresa Sega
Ci sono voluti vent'anni per cercare le tracce, e scavare fra i ricordi, e recuperare le carte, e raccogliere le testimonianze. Ma ora che ne sono trascorsi ottanta da quell'abominio che fu la promulgazione delle leggi razziali, rieccoli qua Roberto e Marco, Tina e Fulvia, Ferruccio e Olga, e tutti gli altri bambini ebrei di Venezia, strappati all'innocenza dell'infanzia per essere catapultati nella follia dell'antisemitismo, prima espulsi dalle scuole del Regno d'Italia e poi costretti alla fuga o alla deportazione. Anche se ci fu pure chi, come Ada, pretese che nessun altro in classe prendesse il posto della compagna Alba: «L'assenza come memoria della presenza è l'immagine che ha dato il titolo al libro», osserva Maria Teresa Sega, ricercatrice dell'Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, che firma Il banco vuoto (Cierre Edizioni) alla vigilia di un altro doloroso anniversario, il settantacinquesimo della drammatica razzia avvenuta in Ghetto nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 1943.

 
IL PERIODO
Va dal 1938 al 1945 il periodo su cui si focalizza l'indagine documentaristica, basata su fotografie, registri scolastici, pagelle, diari inediti. Prima cinque anni di «quasi normalità»: l'esclusione, l'umiliazione, l'indifferenza, ma anche l'incredulità, l'inspiegabilità, la speranza, per cui i genitori faticavano a trovare le parole e proteggevano i figli con il silenzio, facendoli vivere in una fragile bolla. Ma dopo l'armistizio la situazione precipitò, al punto da mettere in pericolo la stessa esistenza dei ragazzini e delle loro famiglie: «Impararono presto il loro falso nome, a recitare preghiere di un'altra religione, a fiutare il pericolo, a diffidare di estranei», sottolinea l'autrice. Piccoli obbligati a comportarsi come grandi, benché non tutti ebbero la fortuna di diventare adulti, visto che dei 246 ebrei veneziani deportati, solo 8 fecero ritorno dai campi di sterminio. È ai bimbi che riuscirono a scappare e a salvarsi che si deve la memoria della tragedia, persone oggi anziane che nelle 154 pagine di ricostruzione storica e aneddoti privati tornano ad essere gli scolaretti di allora, quelli che come Lia Finzi una mattina entrarono all'elementare Oriani a San Maurizio e si sentirono dire dalla maestra rossa di capelli: «Prendi i tuoi quaderni di buona in armadio e da domani non vieni più in questa scuola».
LE ESPULSIONI
Sua sorella Alba, quella per cui l'amica cattolica Ada Lotto mantenne il banco vuoto per tutto l'anno scolastico, non ha mai potuto dimenticare il momento in cui venne radiata dall'istituto magistrale Tommaseo: «Quel giorno è ancora uno dei ricordi più mortificanti della mia vita». Ma lo stesso è stato per Napoleone Leo Jesurum, cacciato dall'elementare Alighieri, e per Roberto Bassi, allontanato dalla Diaz, e per Ferruccio Neerman, colpito dall'insulto «Sporco ebreo» e da quattro sputi in faccia: «Il giorno successivo tornai a scuola e tutti si comportarono come se l'episodio non fosse mai successo, ma non fu così per me. Quel giorno capii che il bambino innocente e sempre disponibile che ero stato l'avevo lasciato ventiquattro ore prima davanti alla scuola Aristide Gabelli del Lido di Venezia».
GLI ISTITUTI PARIFICATI
La settimana dopo aver avviato la campagna anti-ebraica, con il famigerato discorso di Benito Mussolini a Trieste, il governo fascista emanò un decreto legge che concedeva alle Comunità ebraiche la facoltà di gestire proprie scuole parificate. Nell'anno scolastico 1938-39 erano così 56 gli allievi dell'elementare e 52 gli studenti della media, che comprendeva anche ginnasio-liceo classico, liceo scientifico, istituto magistrale e scuola tecnica inferiore, con preside quell'Augusto Levi che era stato sospeso dal servizio statale e che nella sua ultima relazione al Ministero dell'educazione nazionale non aveva potuto nascondere «la difficoltà e l'amarezza infinita» del congedo. La discriminazione era tangibile: «Dei ragazzi più grandi di noi venivano a molestarci, con la giacca facevano l'orecchio del maiale», rammenta Lidia Dina, a proposito dei ripetuti episodi avvenuti a Santa Sofia. Ma in quel surreale clima di sospensione della realtà, i giovani ebrei veneziani vissero una parentesi di illusoria libertà, mescolati ai coetanei ariani: «La differenza fra noi era che loro studiavano al Marco Polo o al Foscarini o dalle Suore di Nevers, ma avevamo la stessa smania per giocare a bridge, la stessa passione per l'arte moderna», è il ricordo di Paolo Sereni.
LA RAZZIA E LA LIBERTÀ
Fu solo un abbaglio: il 30 novembre 1943 la Repubblica sociale italiana ordinò l'invio degli ebrei nei campi di concentramento e la confisca dei loro beni mobili e immobili. Così l'indomani a Venezia il provveditorato agli studi comunicò alla polizia che la scuola elementare ebraica era deserta e le insegnanti risultavano assenti, dopodiché dal 5 dicembre scattarono il rastrellamento in Ghetto e la deportazione soprattutto nel lager di Auschwitz-Birkenau. Sono i capitoli più duri del saggio-memoir: le liste di proscrizione, la fuga rocambolesca verso Sud o all'estero, i tradimenti dei delatori, la paura della cattura, la prospettiva della morte. Ebrei spietatamente braccati, ma anche ebrei miracolosamente salvati. Come la famiglia Dina: i coniugi Emilio ed Enrichetta e il primogenito Franco vennero nascosti a casa dei cattolici Levorato, per questo successivamente proclamati Giusti fra le nazioni, mentre le figlie minori Tina e Pina furono accolte sotto falso nome dalle suore dell'istituto Canal al Pianto, tanto da poter poi riprendere la vita dopo la guerra insieme ad altri giovani amici. «Ci siamo trovati, come se ci fossimo dati appuntamento, in Piazza San Marco, in tanti. Ti xe qua?. Erano i primi giorni dopo la liberazione»: Tina Dina ha deciso di raccontare quei sette anni della sua vita adesso, affidando i suoi scritti alla storica Sega affinché li tramandi anche alle nuove generazioni, che non hanno patito la Shoah ma potrebbero conoscere altri orrori. «Parole come accoglienza e respingimenti, pur in contesti mutati rimarca l'autrice riecheggiano drammi attuali di vite in pericolo e di indifferenza. La memoria ha un senso se interroga il presente e noi stessi, il nostro porci di fronte alle ingiustizie».
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ultimo aggiornamento: 5 Dicembre, 08:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci