La bomba al Gazzettino: un morto, «Dopo 40 anni nessun colpevole»

Mercoledì 21 Febbraio 2018 di Monica Andolfatto
Franco Battagliarin nel giorno delle nozze
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VENEZIA - Gli occhi. Uguali a quelli del padre. Sinceri e curiosi. È un attimo e le lacrime cominciano a velare lo sguardo. Impossibile fermarle. Nemmeno bere un po' d'acqua serve. Sono passati quarant'anni, ma il dolore non passa. E lei, a 54 anni si ritrova bambina di 14 quando lo zio le disse che non avrebbe più rivisto il papà. 
«Erano le 7.30 e io e mio fratello, con la cartella sulle spalle, eravamo appena usciti per andare a scuola. Zio Benito ci è venuto incontro e ci ha abbracciato. Oggi no. Rimanete a casa». 

LO SCOPPIO. Da quel 21 febbraio del 1978, un martedì, per Mara Battagliarin e la sua famiglia, la mamma Rosina Vignotto, il fratello Ivano che di anni ne aveva 10 che purtroppo morirà nel 1990 in un incidente stradale e la sorellina Ilenia di appena 10 mesi, la vita cambiò per sempre.
Circa tre ore prima, una bomba piazzata davanti all'ingresso del Gazzettino, nel cuore di Venezia, in calle de le Acque, vicino alle Mercerie, aveva ucciso Franco Battagliarin, 49 anni, la guardia giurata della Civis, portiere di notte di Ca' Faccanon, storica sede del quotidiano che da qualche mese si era trasferito in terraferma a Mestre, lasciando in centro storico solo la redazione locale. Tre settimane più tardi, a Roma, le Brigate Rosse avrebbero rapito l'onorevole Aldo Moro.

L'ULTIMA CENA. «Aveva cenato con noi continua Rosina, la vedova e poi come sempre ci aveva salutato. Un bacio sulla guancia e quel suo sorriso che contagiava tutti. Quando mio cognato è arrivato stavo giocando sul letto con la piccolina. Le stavo dicendo, dai che tra poco arriva papà: la adorava. Per tutti la nascita di Ilenia era stata una sorpresa e l'avevamo vissuta come un grande dono del cielo. Franco iniziava alle 8 di sera e staccava alle 8 di mattina. No, non me l'hanno detto subito. Mi accompagnarono all'ospedale di Venezia e quando mi hanno comunicato che non potevo vederlo, ho cominciato a capire. Sono quasi svenuta dallo choc e i ricordi si fanno confusi».

«Per giorni non ho visto la mamma continua Mara e io e Ivano non riuscivamo a renderci conto di cosa stesse succedendo. Facevamo domande ma le risposte non arrivavano. Che qualcosa di brutto, di molto brutto fosse accaduto, lo avevamo intuito. Venivamo ripresi se giocavamo o ridevamo e poi no, non potevamo guardare la tv. Essere bambini e scontrarsi con la morte non è facile. Non è facile nemmeno da adulti. E poi c'erano parole che allora faticavo a riempire di senso: attentato, ordigno, deflagrazione, corpo dilaniato, terroristi».

IL GIORNALE. Mara confessa, quasi con pudore, che non ha mai letto un articolo sull'assassinio del padre, né allora né in seguito: «È più forte di me. Non ce la faccio. Così come stento ad andare in cimitero o in pellegrinaggio nel luogo in cui papà ha perso la vita. Perdere una persona cara per le avversità del destino è atroce, ma perderla per mano di qualcuno che decide di interrompere in maniera così drastica e immediata il flusso quotidiano dell'esistenza è lancinante. Spero solo che l'autore di quel gesto disumano qualche volta abbia pensato al male che ha provocato».
All'indomani il giornale titolò a caratteri cubitali Attentato fascista al Gazzettino. Qualche giorno dopo Ordine Nuovo rivendicò l'atto con una telefonata alla redazione padovana. E la firma dell'organizzazione venne ritrovata anche nell'innesco esplosivo, ovvero una sveglia di marca Ruhla, la stessa utilizzata per le bombe sui treni del 1969 e per altri attentati ricondotti alla pista nera. La carica di tritolo venne racchiusa in una pentola a pressione allo scopo di potenziare al massimo la portata offensiva. 

LE INDAGINI. Ad oggi per l'uccisione di Battagliarin non c'è alcun colpevole. Nemmeno le dichiarazioni di Carlo Digilio, collaboratore di giustizia, pentito della destra eversiva, trovarono seguito processuale: nel 1996 affermò che a mettere la bomba fu Giampietro Montavoci, un ordinovista veneziano. Glielo avrebbe confidato lui stesso. Ma il diretto interessato non poteva né negare né confermare: era deceduto 12 anni prima, sbandando con l'auto nei pressi del confine con la Slovenia.

«Non posso dire se le indagini siano state più o meno accurate. Alla fine non mi interessa. Desidero solo che l'assassinio di papà non venga strumentalizzato. Sapere chi sia stato non allevierebbe la pena e non colmerebbe il vuoto. Papà era una persona buona e semplice. Il messaggio che ci ha lasciato continua Mara è che l'odio genera solo altro odio. Penso ai fatti di Macerata. Non ci si può fare giustizia da sé e colpire alla cieca così come è stato fatto nel caso di mio padre».

IL LUTTO. Sopravvissute. Così Mara e Rosina si percepiscono. Non contano i decenni trascorsi: «Penso si sentano così tutti i parenti delle vittime del terrorismo. La gente ti guarda e ti tratta in un altro modo spiega Mara non per cattiveria, ma perché teme di ferirti. Fin da subito. In classe, i compagni e le compagne non sapevano più come comportarsi e così ti isolavano, oppure sono io che mi sono isolata. In seguito ho realizzato che mi è mancato un supporto psicologico, allora non vi era ancora tale sensibilità, necessario a elaborare il lutto, a ricostruirsi dal di dentro. Ammiro coloro che travolti da tragedie come la nostra hanno saputo reagire magari fondando un'associazione o scrivendo dei libri. Noi conclude Mara, guardando la madre se non fosse il quarantennale molto probabilmente non avremmo rilasciato nemmeno questa intervista. Lo abbiamo fatto per papà, perché è giusto che non si dimentichi, specie in un momento come l'attuale in cui c'è un clima diffuso di intolleranza e di violenza».

Dal 2011 Rosina si è trasferita a Jesolo, a pochi passi da Mara: nell'abitazione di Cavallino, quella che Franco Battagliarin aveva costruito insieme a tanti amici, ora ci vive Ilenia. Nel giardino ci sono ancora le rose che lui amava coltivare. 

    

Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 11:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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