Castelfranco Veneto. Franco Battiato e Giusto Pio, l'incredibile connubio. I ricordi del figlio Stefano: «Mi sbattevano fuori dalla mia camera per comporre»

Domenica 4 Giugno 2023 di Fulvio Fenzo
Castelfranco Veneto. Franco Battiato e Giusto Pio, l'incredibile connubio

CASTELFRANCO VENETO (TREVISO) - Non si sente un po’ in colpa?
«Di cosa, scusi?»
Di quel frac che suo padre, Giusto Pio, voleva indossare per il concerto del 1989 davanti a papa Wojtyla con Franco Battiato, primo cantante pop ad esibirsi di fronte ad un pontefice in Sala Nervi.
«Quel frac ce l’ho ancora. Se c’è una “colpevole”, quella era mia madre. Era la sarta di casa e, visto che mio padre non lo indossava, lo modificò per me. Comunque il Papa la prese bene. Sapeva di avere di fronte dei personaggi “sui generis”, e quel concerto venne organizzato per dare un segno di avvicinamento della Chiesa al mondo dei giovani».
L’aneddoto su questo concerto, come su altri episodi di una lunga amicizia umana e professionale, ma anche un’analisi di una collaborazione ventennale che ha prodotto 140 canzoni (e 200 arrangiamenti) co-firmate nella musica da Franco Battiato e Giusto Pio, violinista e compositore di Castelfranco Veneto scomparso nel 2017 a 91 anni, sono al centro del libro “Uno sguardo dal ponte” (Antiga Edizioni), scritto da Stefano Pio, figlio di Giusto e a sua volta musicista, maestro e violista. Nato a Milano, ha scelto di vivere a Venezia. Su Franco Battiato, dopo la sua morte avvenuta due anni fa, sono uscite decine di libri. Ma qui si trova la testimonianza diretta, sua e di suo padre al quale si devono album fondamentali come “L’era del cinghiale bianco” e soprattutto “La voce del padrone”, ed anche notizie del tutto inedite per esempio su quello che è stato definito “l’album perduto” di Battiato e Pio, “Cigarettes”, un ponte tra la loro produzione sperimentale e quella popolare che, nel 1979, venne rifiutato dalle case discografiche e mai più pubblicato.
«Avevo bisogno di lasciare una testimonianza documentale sulla loro collaborazione perché oggi sulle piattaforme digitali, il nome di mio padre come autore è stato cancellato.

E parliamo di piattaforme che ogni anno contano 170 milioni di visualizzazioni delle loro canzoni».


Frac a parte, a lei e a sua sorella si deve l’operazione di “convincimento” nei confronti di vostro padre nell’accogliere quel ragazzo beatnik che voleva prendere lezioni di violino. Era il 1976.
«Voleva imparare a suonarlo e noi conoscevamo la sua attività di sperimentazione di quegli anni. Franco veniva a casa nostra, quando stavamo a Milano perché nostro padre suonava nell’orchestra sinfonica della Rai. Da quelle lezioni nacque un connubio incredibile. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare cosa sarebbe successo pochi anni dopo».


Partirono dalla sperimentazione per poi passare al pop che Battiato chiamava “musica di comunicazione”, ma si diedero sempre del “lei”.
«A loro veniva naturale, non era un vezzo né un segno di distacco. Gli inizi furono difficili, con mio padre che venne promosso “cassiere” sul campo perché Franco avrebbe accettato sempre quello che gli davano per i concerti, e che era meno del pattuito».


Lei, Stefano, nel 1978 finì sulla copertina del 45 giri “Adieu” che Battiato-Pio composero firmandosi come “Astra”, primo tentativo di approdare al pop.
«Mi usarono come “frontman”, ma finì lì perché poco dopo arrivò “L’era del cinghiale bianco”».


L’inizio di tutto. Lei li vide nella creazione di questo primo capolavoro?
«Franco per comporre aveva bisogno di uno strumento, spesso una tastiera. Mio padre aveva sempre con sé i fogli degli spartiti per appuntarsi le idee che gli venivano in mente (e qui Stefano Pio mostra una cartella in cui ci sono gli spartiti scritti a matita da suo padre di capolavori come Voglio vederti danzare, L’animale, Luna indiana... ndr.). Battiato veniva a casa nostra e mi occupavano la camera dove avevo il pianoforte». 


Ci racconti un episodio.
«Ce ne sono tanti, questo non l’ho nemmeno inserito nel libro. Il produttore, Angelo Carrara, doveva presentare il giorno dopo l’album alla casa discografica, ma avevano pronti solo sei pezzi. Così venni di nuovo sbattuto fuori dalla mia camera per una notte, e in quella notte mio padre compose da solo “Luna indiana” al pianoforte. La mattina dopo arrivò a casa Franco, la ascoltò ed ebbe l’idea di inserire dei vocalizzi nella seconda parte del brano, “legandola” al resto dell’album. Collaborarono fino alla metà degli anni Novanta, quando mio padre decise di ritirarsi e di tornare a Castelfranco».

Ultimo aggiornamento: 5 Giugno, 09:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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