Il grido di allarme di Reinhold Messner: «Il vero alpinismo rischia di morire»

Martedì 28 Luglio 2020 di Adriano Favaro
Il grido di allarme di Reinhold Messner: «Il vero alpinismo rischia di morire»
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Sono passati 40 anni dall'epica scalata che portò il celebre altoatesino sulla cima dell'Everest a 8.884 metri d'altezza senza usare maschera e ossigeno. Un traguardo storico che va ad aggiungersi alle tredici scalate sugli altri Ottomila nel mondo. «Quell'evento mi fece capire che potevo farcela da solo. Così conquistai una grande capacità psichica».


«Sono scettico sulla frase amo la montagna: io non amo la montagna. Amo la mia donna, amo i miei bambini, ma non amo la montagna. La montagna è la base per fare certe esperienze; e io so come si comporta l'uomo all'orlo di certe possibilità».

Everest, da solo e senza maschera ad ossigeno. Come ha preparato quella salita del 1980?
«Scalare l'Everest senza maschera nel 1978 mi diede la base per dire: allora possono fare da solo; sapevo che non mi servivano sherpa e aiuto dal di fuori. Prendo quello che possa caricarmi in spalla e vado. Andare da solo è molto differente che stare con un compagno o con gli sherpa, avere campi preparati, corde fisse». 

Il fisico funziona, la sua mente? 
«Mi serviva una solitaria su un ottomila metri; così ho fatto il Nanga Parbat (8126 metri). Sommando l'Everest senza maschera e la solitaria al Nanga Parbat il risultato è che ottieni la capacità psichica di resistere da solo su questi pendii incredibili».

Come passano due anni pensando all'Everest in solitaria?
«Mi sono preparato fisicamente, allenandomi in montagna, pensando a quello che mi sarebbe servito, anche se alla fine era poco. Sono partito dall'Europa per quella spedizione dal versante tibetano con meno di cento chili. Dal campo base mi sono mosso con 18-20. Ho calcolato che potevo sopportare la solitudine, anche una salita col brutto tempo: da qualche parte potevo restare per una decina di giorni».

Ottocento giorni con quell'Everest nella testa non sono semplici.
«No. Nel 1979 ero salito sul K2 e salvato Peter Hillary il figlio di Edmund, in difficoltà sull'Ama Dablam, in Nepal.

Sui fianchi di una montagna gigantesca lei e la sua mente
«Ho fatto altre esperienze che mi hanno dato la certezza che è fondamentale la base psichica. Il corpo deve essere preparato ma la psiche decide: ti dà la capacità di resistere, sopportare il mal di montagna che non ho avuto; però il mal testa c'è sempre. La fatica è enorme: essere lasciato in quell'infinito da solo è diverso che avere un compagno col quale basta un colpo d'occhio per capire se anche lui ce la fa e si resiste. Da solo nessuno ti aiuta».

Lei è ormai storico, filologo e filosofo della montagna.
«Ho basato il mio alpinismo, fin dall'inizio, anche sulla storia. Volevo sapere tutto quello che era successo nei 250 anni prima di me. Prima l'alpinismo non c'era: esisteva solo un approccio mitologico alla montagna, specialmente nel Tibet. Mi ha interessato tutto quello che è successo dalla prima salita del Monte Bianco nelle Alpi fino ad oggi».

Che sta facendo?
«Il mio ultimo progetto - che parte appena il coronavirus sarà finito, avrei dovuto essere già in Australia - è quello che chiamo la Final expedition, l'ultima spedizione».

Ancora scarponi, corde e tende?
«Niente di tutto questo ma una serie di conferenze per il mondo: un viaggio dove voglio raccontare a chi è interessato cosa sia l'alpinismo tradizionale, che è basato sulla storia. Racconterò la filosofia che è nata e cresciuta assieme a migliaia di alpinisti: da Paul Preuss ad Albert Mummery, a George Mallory che hanno lasciato pagine straordinarie legate alla tensione uomo-montagna».

Durante l'isolamento di questi mesi
«Ho scritto un libro che spiega cosa sia l'alpinismo tradizionale, uscirà nel 2021. Ho deciso di girare il mondo come conferenziere per portare la base dell'alpinismo tradizionale, dicendo che il valore più grande che la montagna può regalarci è questa forma di alpinismo». 

Che sta sparendo, vero?
«La scalata in palestra è un sport bellissimo ma non è alpinismo. Come non è alpinismo quello che succede oggi sull'Everest. Grandi gruppi con cento sherpa che preparano la via fanno turismo ma non alpinismo. Vorrei spiegare questo e aiutare a far crescere delle strutture museali locali; raccontando le Dolomiti, l'Himalaya degli sherpa o l'alpinismo dei Carpazi. Bisogna lasciare un'eredità al mondo dell'alpinismo nato 250 anni fa. Temo che l'alpinismo sparirà. L'arrampicata di sicuro diventerà sport puro, olimpico. E l'alpinismo tradizionale verrà dimenticato perché troppo pericoloso; so che è pericoloso ma ha un valore enorme, va difeso».

Torniamo all'agosto del 1980: come ha vissuto quei giorni da solo?
«La cosa migliore è fare come la marmotta, arrampicare e poi andare in tenda, farsi un po' di tè, una minestra, qualcosa per lo stomaco. Non si ha nemmeno una grande fame perché lo stomaco non vuole digerire. Non puoi dormire, però puoi metterti in quella situazione». 

Come si fa?
«Chiudere gli occhi e dimenticare dove sei: per fare sosta e sosta. Dormirai un altro momento. Il giorno dopo ti concentri su un punto mentre sali vedi dieci metri quadrati davanti e due sotto e niente altro; sali e il tempo passa. Dove sono passato io nel versante Nord non c'erano grandi difficoltà: rischio di cadere basso, altissimo quello di perdersi».

Perdersi?
«Proprio così. Nell'ultimo tratto sull'Everest ho incontrato nebbie e avevo tanta paura di perdermi, in una parete piena di neve». 

In condizioni estreme si parla di nuove dimensioni del cervello
«Non dico altre dimensione, ma mi sono trovato in una situazione disperatissima nel 1970, dopo la cima del Nanga Parbat, dopo un bivacco a meno 40 gradi senza alcun mezzo di protezione e mio fratello Günther (morirà in discesa travolto da una slavina, ndr) col mal di montagna. Ho visto me stesso rotolare e io stavo sopra di me e mi guardavo: e mi sono detto è finita».

Quante volte è accaduto?
«In forma radicale una volta. Otto anni dopo gli scienziati parlarono di questo fenomeno, che succede anche a chi sta morendo. Poi ho raccolto molte esperienze in spedizioni di alto livello e in momenti drammatici».

La nostra mente ci supera
«Sono sicuro che sia la mente a far sopravvivere l'uomo. Ci guida l'istinto di sopravvivenza. Per fortuna, altrimenti non esisterebbero più alpinisti».
Ultimo aggiornamento: 13:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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