L'ombra dei servizi e i telefoni
"avvelenati". Il gioco dei magistrati

Domenica 7 Settembre 2014 di Amadori, Andolfatto, Dianese
I tre pm: Paola Tonini, Stefano Buccini e Stefano Ancillotto
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Alle 4 del mattino del 4 giugno 2014 la luce è già accesa in casa di Stefano Ancilotto. Il p.m. dell’inchiesta sul Mose è sveglio, ma non perché soffra di insonnia. Ed è presto anche per andare a correre. È stata una telefonata ad interrompergli il riposo. Sapeva che sarebbe stata una giornata campale quella di mercoledì 4 giugno, ma sperava che non cominciasse così presto.



«Tengo il telefono acceso, comunque», aveva detto, ma era più scaramanzia che un eccesso di precauzione. Del resto era tutto pronto e sapeva che poteva fidarsi degli uomini con i quali aveva lavorato a stretto contatto di gomito per 4 anni.



Dunque, perché preoccuparsi? Non c’è motivo - diceva a se stesso - ma anche senza motivo era meglio tenere il cellulare a portata di mano. Aveva imparato che nelle inchieste è meglio non abbassare mai la guardia. Mentre spegneva la luce, la sera prima, gli era venuto in mente di quante volte avevano dovuto giocare d’astuzia in questa inchiesta sul Mose.



Come quando avevano fornito ai vertici della Finanza i numeri dei telefoni sotto intercettazione. Cos’era? Giugno 2010, quando era iniziata la verifica fiscale al Consorzio Venezia Nuova. Le Fiamme gialle avevano iniziato i controlli e il giorno dopo, guarda un po’, il generale Spaziante, il numero due della Guardia di finanza, aveva chiamato il generale Walter Manzon, il comandante di Venezia.



Il colonnello Nisi, che stava conducendo le indagini sul Mose, imbarazzato, aveva spiegato ai p.m. dell’indagine - Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini - che non sapeva come far fronte alle richieste dei superiori. Come faceva a dire di no a Manzon, da cui dipendeva gerarchicamente in linea diretta? E come faceva Manzon a dire di no a Spaziante?



I NUMERI “AVVELENATI” - «Bene, colonnello, perché non glieli diamo questi numeri di telefono? Se li vogliono, glieli diamo, siamo persone gentili, noi».



Nisi era rimasto interdetto. Aveva guardato Stefano Ancilotto con aria interrogativa. «Solo che non forniamo tutti i numeri, ma solo alcuni, diciamo quelli più ovvi e non certo i telefoni intestati a Pinco Palla che però vengono utilizzati dagli indagati. Loro pensano di metterci nel sacco e invece vediamo se siamo più bravi noi. Stenda un elenco dettagliato di tutti i telefoni che abbiamo sotto controllo e poi vediamo».



Il foglio a quadretti era stato diviso in due, di qua i cellulari e i numeri di telefono fisso che potevano essere dati in pasto alle “spie” della Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova, dall’altra i numeri che dovevano restare “coperti”. Ancilotto ne aveva aggiunto qualcuno nella colonna dei numeri “visibili”, che gli sembravano troppo pochi. «Perché non dobbiamo sottovalutarli».



Il trucco aveva funzionato. Ancilotto lo aveva capito ascoltandoli al telefono mentre si prendevano gioco di lui, della sua inchiesta, dei suoi colleghi, della Procura di Venezia. «Una bella idea, quell’elenco di numeri avvelenati. Alla resa dei conti stanno lavorando per noi» si era detto Ancilotto. Era abituato a queste partite a scacchi. Quando iniziava una inchiesta lui sapeva che doveva mettersi dalla parte dell’indagato per cercare di anticipare le mosse. Lo aveva imparato nel periodo in cui aveva fatto il praticantato come avvocato. E se non aveva mai perso un processo da p.m. era proprio perché giocava d’anticipo.



Del resto due dei tre pubblici ministeri di questa inchiesta sul Mose vengono dalle inchieste sulla criminalità organizzata e quindi se ne intendono di depistaggi e "spie". Stefano Ancilotto fa parte della schiera dei "giudici ragazzini", come li chiamò Cossiga, assunti dopo le stragi di Falcone e Borsellino e mandati in Sicilia a fare i conti con la mafia. Da quell’esperienza arriva Ancilotto. A Venezia aveva istruito il maxi processo contro intromettitori e motoscafisti del Tronchetto. Da sempre l’isola artificiale, che è la porta principale di ingresso del turismo organizzato a Venezia, è saldamente nelle mani della criminalità organizzata veneziana. Che ai vecchi tempi rispondeva a Felice Maniero, il genio del crimine del Nordest.



Il processo in cui Ancilotto era pubblico ministero si era chiuso nel 2009 con 17 condanne e 3 assoluzioni per un totale di 67 anni e 10 mesi di galera. Per alcuni imputati era scattata anche l’aggravante del metodo mafioso e quella era stata una grande vittoria proprio del p.m. Per la prima volta infatti a Venezia venivano applicate le aggravanti dell’utilizzo di metodi mafiosi. Poi arriverà un altro Tribunale, in Appello, a rimangiarsi la decisione del Tribunale di primo grado, ma per allora Ancilotto sarà già passato al settore della Procura che si occupa di pubblica amministrazione.



Anche Paola Tonini è un p.m. che ha avuto a che fare con la criminalità organizzata. E proprio con la banda del Brenta di Felice Maniero. Centinaia di malavitosi erano finiti in galera nel 1995 dopo le confessioni di Faccia d’angelo, ma i processi sarebbero durati altri 10 anni e poi, anche processati e condannati, molti malavitosi erano tornati al lavoro di sempre, l’unico che sapevano fare. Molti erano finiti sotto la scure di Paola Tonini.



E sia Ancilotto che Paola Tonini nei giorni immediatamente precedenti al 4 giugno 2014 quante volte avranno pensato che era stata fino alla fine una indagine lunga e difficile, questa sul Mose. Una indagine con troppi personaggi eccellenti e con troppi funzionari dello Stato corrotti. E, dunque, nemmeno gli arresti potevano filare via lisci. Ecco perché la mattinata di lavoro del p.m, Stefano Ancilotto comincia nel cuore della notte. Poco dopo le 3, quando i 200 uomini messi in campo per il blitz che avrebbe portato in galera 34 persone, inizia a prendere la sua fisionomia, ecco a Padova il primo intoppo.



I SERVIZI SEGRETI - I finanzieri che erano andati a perquisire la sede dell’Aisi, l'Agenzia informazioni e sicurezza interna, cioè i servizi segreti, si erano trovati di fronte a qualche problema. «Non potete entrare. Non potete fare alcuna perquisizione. Questi sono uffici dei Servizi di sicurezza italiani». I finanzieri non si erano lasciato intimidire. Avevano chiamato Stefano Ancilotto. «Non vi muovete. Vi richiamo».

«Guardi che questo sta invocando il segreto di Stato».

Ancilotto si era consultato con Carlo Nordio, il procuratore aggiunto di Venezia. Nordio è un veterano delle inchieste sulle mazzette, visto che faceva parte del pool di magistrati che nel 1992 aveva condotto le indagini sulla tangentopoli veneta. Alto, flemmatico, un magistrato che sembra preso di sana pianta dalle aule del Regno Unito di Sua Maestà, Nordio aveva preso il telefono. A Roma erano rimasti di sasso e il funzionario del Servizi segreti che era stato buttato giù dal letto aveva chiesto tempo. «D’accordo, però noi la perquisizione la dobbiamo fare» – gli aveva detto Nordio. Nordio era stato diplomatico, ma fermissimo ed aveva fatto capire chiaramente che la Procura di Venezia non si sarebbe fermata. E se a qualcuno fosse saltato in mente sul serio di utilizzare il segreto di Stato, forse era meglio che fosse cosciente che si esponeva al ridicolo. Il giorno dopo i quotidiani e le televisioni di tutto il mondo si sarebbero riempiti di articoli sulla corruzione, ma anche sulle connivenze dello Stato. Che copre i ladri. Come si fa ad invocare il segreto di Stato in un caso evidente di tangenti e di corruzione? L’abilità diplomatica e la fermezza di Carlo Nordio avevano risolto il problema. Ma perché i Servizi?

9 - Continua



(Le precedenti puntate sono state



pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30,



31 agosto e il 6 settembre)
Ultimo aggiornamento: 10:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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