Luca Favarin, l'ex prete e la sua coop: ristorante etnico, enoteca, caffetteria e villaggio per minori. La rottura con la Curia: «Io sto con il Papa ma la Chiesa sono i vescovi»

Lunedì 9 Ottobre 2023 di Edoardo Pittalis
Luca Favarin, l'ex prete padovano e la sua coop

Dopo aver lasciato la sua parrocchia padovana, Luca Favarin si dedica completamente alle attività per i migranti: il ristorante etnico, l’enoteca, una caffetteria, la produzione di vino e il progetto di un villaggio per i minori «che sarà pronto per gennaio». La rottura con la Curia: «Penso che fare il sacerdote sia bello. Dicevo le stesse cose di Francesco, ma la Chiesa sono i vescovi».

Fino all'altro giorno era don Luca, oggi è Luca Favarin, padovano, 51 anni. «Finito tutto, ognuno per la sua strada». Dopo la dispensa papale, l'ex parroco ha continuato il suo lavoro con la cooperativa "Percorso vita" che si occupa di accoglienza di minori e di migranti e combatte la tratta delle donne. Li aiuta a inserirsi nel mondo del lavoro e il progetto comprende il ristorante etnico "Strada facendo" a Chiesanuova, l'enoteca "Versi ribelli" all'Arcella, la Caffetteria al museo degli Eremitani. Anche la produzione di diecimila bottiglie di vino. Ci lavorano una sessantina di persone, il fatturato ha superato i 2 milioni di euro. E in più un sogno che sta per realizzarsi: un villaggio per minori costruito al Sacro Cuore utilizzando il superbonus per il restauro e contraendo un mutuo con Banca Etica per comprare sei ettari di terreno. «Sarà tutto pronto per il gennaio del 2024».

Favarin ha creato l'impresa una decina di anni fa, con l'aiuto di commercialisti, ingegneri, medici, cuochi, enologi, tutti volontari.

Favarin ha un passato variegato e impegnato: parroco, esperienza in Africa, sommelier esperto di vini francesi, è consulente di pedagogia interculturale, tiene lezioni all'università, ha lavorato in carcere. Ha scritto libri, edizioni San Paolo: "Animali da circo, i migranti obbedienti che vorremmo" e "Belli e bianchi, non tutti i profughi sono uguali". Il prossimo libro avrà come tema l'elogio dell'interesse: «Ai miei studenti all'università spiego che l'obiettivo è l'interesse e non bisogna vergognarsi delle parole. L'immigrazione è una strada anche di interesse». Per Favarin il vero problema dell'immigrazione sta arrivando adesso e comporta una nuova emergenza alla quale non siamo preparati.

L'ondata di migranti minorenni, di questi ragazzi quasi sputati dalle onde del Mediterraneo, sono tanti e sono sofferenti. Il vero problema non è l'emigrato, è l'emigrazione povera


Chi è oggi Luca Favarin?
«Sono un ex ministro di culto cattolico, con la Diocesi non ci siamo capiti sulla gestione delle accoglienze, sulla rilevanza sociale della struttura che avevo aiutato a creare. Il vescovo mi ha detto o fai una cosa o fai l'altra e sono stato sospeso a divinis in attesa della dispensa vaticana che poi è arrivata. Per dieci anni ho fatto queste cose senza problemi, in tanti anni, però, nessuno è venuto a vedere, hanno solo registrato il fastidio per questo progetto e lo scontro è iniziato quando abbiamo incominciato a fare accoglienza dei migranti. Non poteva avvenire soft: sono tutti migranti, quasi tutti neri, non si possono nascondere».


Voleva fare il prete da bambino?
«No, la vocazione è cresciuta con gli anni in ambiente parrocchiale. Ne ero convinto, penso che il lavoro del sacerdote sia bello, certo lo immaginavo più evangelico e meno istituzionale. Sono molto creativo, fino al 2012 sono stato parroco a Selvazzano e a Vigonza: ho riempito le chiese e anche le casse delle chiese con eventi, festival, spettacoli. Mi è stato detto che quello dovevo fare, che l'accoglienza era una cosa mia personale. A quel punto ho pensato che il problema ero io. Dicevo che non potevo non accoglierli, sono le stesse cose che dice Papa Francesco. Ma la Chiesa non è il Papa, sono i vescovi».


Cosa ha fatto per scontrarsi con la Curia?
«Fin dal 2002 facevo anche il lavoro sulla strada, tra i poveri, gli emigrati. In venti anni nessuno interferiva, era come se facessi una cosa che non riguardava la diocesi. Man mano che l'attività cresceva e coinvolgeva altre persone ero considerato come un corpo estraneo. Avrebbero potuto controllare anche la parte economica, i nostri bilanci erano e sono certificati da un ente internazionale. Hanno quasi scritto che al Vangelo avevo preferito fare l'imprenditore, ma io non faccio l'imprenditore, lavoro gratis a tempo pieno e la cooperativa Onlus non distribuisce dividendi. Il costo per la cooperativa è zero, qui lavorano tutti gratis, una quarantina di collaboratori. Per un anno sono stato volontario in carcere al Due Palazzi di Padova ed è una realtà che mi è servita moltissimo. Ho girato tutte le carceri per minori dell'Italia del Nord, cella per cella, dai pedofili ai capi mafia, per capire bene una cosa: per quanto incontriamo carcerati e migranti, c'è sempre il rischio di essere autoreferenziali. Ho viaggiato molto anche in Africa, specie nelle zone del colera e della lebbra e questo mi ha aiutato a superare la paura».


Tutto questo cosa c'entra con il ristorante etnico da 80 posti?
«L'enogastronomia è un progetto culturale, scelto per incontrare la società, è un locale dove si fa cibo buono, chi lo fa o lo serve è secondario. Come il cibo è qualità, lo è l'accoglienza, lo sono le persone. Non siamo buoni, siamo giusti: chi non lavora non resta».


A portare avanti il ristorante e le varie iniziative sono in particolare due volontari: il padovano Stefano Ferro, 68 anni, e la mestrina Carolina Bargoni, 65 anni; un consulente finanziario e la pr di grandi aziende venete. Come è entrato Ferro nel progetto?
«Per trent'anni sono stato consulente finanziario per un grosso gruppo, dal 2016 sono impegnato qua a tempo pieno. Sono esperto in bilanci, li so leggere; ho seguito questa cooperativa sociale che vive senza sussidi, senza donazioni. Con Luca ci siamo conosciuti entrambi volontari in carcere. Abbiamo creato rapporti con l'università di Padova che ci ha permesso di istituire un master di formazione di accoglienza migranti, il professor Adone Brandalise ci ha seguito dal primo momento. Sono anche stato consigliere comunale con una coalizione civica che appoggiava il sindaco Giordani. Stiamo completando la costruzione di un villaggio che si chiama Kidane, significa alleanza, c'è una Madonna di Kidane in Etiopia. Nel nostro villaggio ci sono la comunità per minori, impieghiamo anche minori carcerati. Coltiviamo biologico, abbiamo creato un progetto pilota di enogastronomia italiana e una foresteria per turisti».


Lei ha una storia personale che la lega alla parola rifugiato?
«Mio padre Luigi è stato a modo suo un vero rifugiato: è stato il primo ospite dei "Porteati" a Padova che era il rifugio per i minorenni gestito dai Protestanti al Portello. Era nato nel 1918, figlio della guerra, ed era stato abbandonato. Ma è stata la sua fortuna, ha potuto frequentare la scuola d'arte al Selvatico e diventare un pittore affermato e anche seguire l'altra sua passione, il calcio: ha giocato da titolare nella squadra del Padova».


E Carolina che ruolo ha nel progetto?
«Anch'io ho incontrato l'allora don Luca in carcere, ero impegnata in un progetto per aiutare le ragazze vittime del racket delle ragazze di colore e ragazze dell'Est europeo costrette a prostituirsi nella zona di Corso Stati Uniti. Non è facile entrare nella loro fiducia per aiutarle: lavori per mesi con donne disperate ma terrorizzate, quando occorre devi poterle portare via e nasconderle. Ci hanno aiutato don Benzi e di don Ciotti. Poi sono diventata la responsabile del ristorante, abbiamo formato decine e decine di cuochi e camerieri che ora ci vengono richiesti da ogni parte d'Italia. Siamo per scelta un centro di formazione continua. Prima lavoravo nelle relazioni pubbliche di grandi aziende venete, senza trascurare la mia passione per la musica e le arti, così ho conosciuto personaggi importanti del mondo dello spettacolo e dell'arte che si sono legati alle nostre iniziative: il musicista Paolo Fresu verrà a inaugurare il Villaggio. Vengono spesso a trovarci Neri Marcorè, Ascanio Celestini, Antonella Ruggiero. Stefano Bollani ha coinvolto anche il suo amico Claudio Baglioni che ha promesso di venire: questo locale si chiama come la sua canzone».

Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 10:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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