Bolognino parla in aula: «Mafia? No, erano solo i miei affari»

Martedì 27 Aprile 2021 di Luca Ingegneri
Bolognino parla in aula: «Mafia? No, erano solo i miei affari»
1

GALLIERA - Ha risposto per ore alle domande del pubblico ministero e del suo difensore. Ma non ha fornito la benché minima ammissione respingendo con fermezza qualsiasi legame con la ‘ndrangheta. In videoconferenza dal carcere di Nuoro, Sergio Bolognino ha ricostruito davanti al tribunale gli ultimi venticinque anni della sua vita, dal momento in cui ha messo piede per la prima volta in Veneto. Quello che la Procura antimafia di Venezia definisce il rappresentante territoriale della ‘ndrina, in grado di realizzare enormi profitti attraverso il riciclaggio di denaro sporco e i prestiti a tassi usurari, rinforzati da minacce, pestaggi e agguati, non ammette uno solo dei gravi addebiti che gli vengono contestati.
GRANDE ARACRI
Quando il pubblico ministero Paola Tonini gli chiede se per caso conosca il boss Nicolino Grande Aracri Bolognino risponde spavaldo: «Non ho mai messo piede in vita mia a Cutro, non so nemmeno dove sia. Mi avete intercettato per anni ma non avete mai trovato tracce della mia presenza in quel posto». Ammette di non essere uno stinco di santo, di aver commesso molti reati ma di aver anche collaborato con le Procure: «Mi sono assunto le mie responsabilità e ho pagato - ha precisato a proposito del traffico di imbarcazioni acquistate in leasing negli anni 2011-12, fatte sparire simulando furti e rivendute sul Mar Nero con immatricolazioni nuove di zecca - ma l’ho sempre fatto per tornaconto personale senza agevolare associazioni mafiose».
IL TRASFERIMENTO
É nel 1998 che Sergio Bolognino mette radici nel Bassanese: «Avevo appena finito di scontare un definitivo di poco più di un anno per ricettazione, ero uscito in semilibertà ma da noi non c’erano prospettive di lavoro se non quella di andare a raccogliere le arance. So cos’è la mafia e mi volevo allontanare per assicurare un futuro migliore alla mia famiglia. Una scelta sofferta, un distacco pesante». Bolognino racconta dell’ospitalità offerta da un amico di vecchia data e delle prime opportunità di lavoro, in un maneggio e in una piccola fabbrica di telai per biciclette.
Ma è un altro guaio con la giustizia ad interrompere i suoi piani. «Nel 2001 mi arrestarono per un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga in Puglia. Dopo un anno fui assolto per non aver commesso il fatto. Una volta fuori dal carcere, decisi di fare il manovale. Potevo sfruttare il mio diploma di geometra, erano anni buoni per l’edilizia». Bolognino iniziò a dividersi tra i cantieri e la trattoria rilevata in società con la moglie. Anni di duro lavoro ma anche il periodo in cui secondo l’accusa avrebbe gettato le basi del business mafioso. Dopo aver avviato una società di costruzioni Bolognino si sarebbe dedicato ad usure ed estorsioni, ai danni di imprenditori del posto. Con grande abilità ha offerto però una diversa chiave di lettura degli episodi delittuosi negando di aver adoperato metodi mafiosi. Come nel famoso caso della Giesse Scaffalature di Galliera. Bolognino ha negato di aver messo le mani addosso all’imprenditore trevigiano Stefano Venturin. «Sospettavo - dice - che gestisse l’azienda in maniera poco pulita, è vero che gli animi si erano scaldati e che sono intervenuti i carabinieri». Oppure quando ha parlato dei rapporti con l’impresario Adriano Biasion, di Piove di Sacco: «Ho costruito con lui a Carmignano di Brenta - spiega - voleva pagarmi con la permuta di un appartamento su cui gravava un’ipoteca bancaria per il 50%. Per rogitare avrei dovuto tirare fuori 60mila euro di tasca mia. Non se ne è fatto nulla e non ho mai avuto i soldi che mi doveva».
Luca Ingegneri
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimo aggiornamento: 08:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci