Il padovano Beghetto e quel tandem che pedalò nell'oro: «Olimpiadi emozione speciale»

Lunedì 17 Agosto 2020
Beghetto al centro nella foto
«Beghetto-Bianchetto-Beghetto-Bianchetto». I bambini in quell'estate del 1960 lo pronunciavano tutto attaccato, come fosse un nome unico. Come il rumore di un treno a vapore che si metteva in movimento, come le due ruote di una bicicletta. E in fondo quello erano davvero: erano le gambe del tandem, dovevano dare insieme l'impressione di una pedalata unica. Beghetto parlava poco, l'altro molto; ma si intendevano senza parlare nel momento di decidere.
Beghetto-Bianchetto, che erano due padovani, divennero famosi in un giorno d'agosto di 60 anni fa: medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma. È bastato per entrare nella leggenda.
Giuseppe Beghetto, 81 anni, anche tre titoli mondiali nella velocità e tre medaglie d'argento. Dieci anni da professionista, ha corso un Tour de France nel 1970, vinto da Merckx.
Beghetto era partito da Tombolo che allora era il centro del mercato delle carni e del bestiame del Nord; giusto all'incrocio delle province di Padova-Vicenza-Treviso. Le famiglie si chiamavano tutte Andretta, Beghetto e Pilotto. In piazza è rimasta la Trattoria dei Mediatori che ha 120 anni di storia e conserva i piatti del passato, dalla pasta e fagioli alla trippa. I contratti si firmavano a tavola con la stretta di mano.
«Anche la mia era una famiglia di commercianti di bestiame, quello era il mestiere di papà Romano, eravamo tre figli. A me piaceva soprattutto il calcio, ero un buon centrocampista perché correvo tanto e mi aveva tesserato il Cittadella. La passione per il pallone mi è rimasta, non solo perché mio figlio Massimo ha giocato in serie A e mio nipote Andrea ci gioca. Sono rimasto tifoso del Milan, ammiratore di Gianni Rivera».
Come è arrivato alla bicicletta?
«La mia prima bicicletta l'ho comprata con le mance che guadagnavo seguendo mio padre al mercato di Castelfranco. Poi è arrivato un paesano che mi ha portato a Bassano del Grappa a farmi la licenza di corridore, il primo tesserino col Club Bassano da esordiente è datato 1955, non avevo ancora 16 anni. Per fare la prima corsa sono andato a Noventa Vicentina, ho pedalato sotto la pioggia e ho vinto. E quell'anno ho vinto pure i campionati italiani su strada e su pista della mia categoria. L'anno dopo sono passato tra gli Allievi e anche nella nuova categoria ho vinto gli stessi titoli. Tra i tifosi più accesi c'era un compagno di scuola, più piccolo di un anno, appassionato di ciclismo perché il papà era un coppiano sfegatato. Con Ennio Doris siamo cresciuti insieme, siamo rimasti amici, allora nessuno poteva pensare che lui sarebbe diventato un uomo così importante e che io avrei vinto un'Olimpiade».
Il ciclismo era un destino già scritto?
«Dopo aver vinto anche nel 1957 i campionati italiani su strada e su pista, sono passato alla Ciclisti Padovani col maestro Severino Rigoni e a quel punto, con i suoi insegnamenti, è incominciata la carriera vera da dilettante. E pensare che gareggiavo su pista solo per i campionati. Nel 1959 ero già pronto per entrare nei professionisti, la Torpado nella quale correva Aldo Moser mi aveva fatto il contratto, solo che la Federazione a Roma l'ha bloccato dicendo che ero probabile olimpico. Ora so che tutto ha un senso: se correvo su strada non avrei vinto Olimpiadi e mondiali. Quando ho finalmente corso su strada ho vinto qualche gara, ma avevo ormai trent'anni passati. Sono contento di come sono andate le cose».
Come è nata la coppia con Bianchetto?
«Eravamo nella stessa squadra padovana, Rigoni ci ha insegnato segreti e regole. La vigilia olimpica era stata eccezionale per me, avevo il record del mondo del chilometro da fermo, pensavo che sarei andato a Roma in questa specialità. Invece il ct Costa quindici giorni prima mi mette a fare il tandem con Bianchetto!».
Oggi il tandem non si corre più: come mai?
«È troppo pericoloso per la velocità stessa, a me non è mai piaciuto tanto. La formazione era con Bianchetto davanti, lui era bravissimo a guidare e tatticamente più bravo di me, non per niente mi ha battuto due volte ai mondiali. Ma nel tandem chi sta dietro deve anche controllare gli avversari e regolare la forza. Vincere un'Olimpiade è speciale, non ha paragoni. Ho vinto anche tre campionati del mondo, ma non è la stessa cosa. In finale abbiamo battuto i tedeschi dell'Est che erano fortissimi. Vincere, poi, in Italia, a Roma, era una cosa davvero diversa da qualsiasi sogno. Si resta nella storia. L'emozione maggiore è stata nel momento dell'Inno nazionale con l'oro al collo, sul podio. Ho sempre sentito con orgoglio l'onore di vestire la maglia azzurra, le ricordo tutte una per una. Roma è stata la cosa più speciale della mia vita. Siamo stati ricevuti dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che ci ha nominato Cavalieri. Tre anni fa ci hanno dato il collare d'oro che è la massima onorificenza per un atleta. A Roma ci avevano anche regalato una 500 Fiat. Il ciclismo era andato molto bene alle Olimpiadi: Gaiardoni che era fortissimo ha vinto due ori, poi il quartetto con Testa anche lui padovano. Facevamo allenamento al mattino in giro per la Capitale, la domenica, quando in giro non c'era traffico. Noi ciclisti non siamo stati ospiti nel Villaggio Olimpico, ci hanno portato su un convento di suore alle Frattocchie, fuori Roma, per essere più tranquilli».
E il dopo Olimpiadi con tre titoli mondiali su pista?
«Ho continuato a correre su strada e su pista. In due anni ho vinto due medaglie d'argento ai mondiali su pista, battuto sempre da Bianchetto. Nel 1963 sono passato professionista e due anni dopo ho vinto il campionato del mondo nella velocità a San Sebastian. Nel '66 ancora titolo mondiale a Francoforte e nel '67 secondo dietro il belga Sercu, mi sono preso la rivincita l'anno dopo a Roma, dove ho vinto anche i campionati italiani battendo un monumento, Antonio Maspes, il più forte di sempre, 7 titoli mondiali! Un anno ho corso con Maspes nella Ignis, il cavalier Borghi mi aveva preso per portarlo all'ottavo titolo e invece ad Amsterdam abbiamo perso tutti e due: io sono arrivato secondo, lui terzo. Le vittorie ai mondiali le ricordo tutte e le ricordano anche i tifosi che continuano a mandarmi fotografie per la firma, specie da Russia, Svezia e Germania. Ne spedisco decine ogni settimana».
I più forti incontrati su pista e su strada?
«Maspes era immenso, ma anche Gaiardoni era fortissimo, poi Sercu. Oggi i giovani non vogliono fare sacrifici: la pista è sacrificio. Quando ho corso io su strada c'erano Merckx e Gimondi, il primo era il più forte di tutti. In coppia con lui ho vinto una Seigiorni, quelle gare le ho fatte in tutto il mondo, anche in America e in Australia. Oggi sono spettacoli inseriti in un concerto, allora si pedalava e basta. In Giappone puntavano come sui cavalli: tu eri vincolato, non potevi parlare con nessuno. Oggi è cambiato tutto, dall'alimentazione agli allenamenti. Una volta mangiavamo quello che ci preparavano: alle Olimpiadi c'era un pasto uguale per tutti, come al collegio, cucinavano le suore».
Va sempre in bicicletta?
«Ho smesso nel 1974, non potevi fare due lavori assieme. Io facevo il contadino, col ciclismo avevo comprato la terra vicino al paese. Ero allevatore e agricoltore, bestiame da carne e da vendere. Un mestiere finito anche quello. Ora sono in pensione ma in bicicletta vado sempre a fare giri con gli amici, ho vinto un titolo italiano anche da cicloamatore correndo per il mio amico Egidio Fior. Poi è diventato tutto troppo pericoloso, correvo con gente di una certa età che lo faceva non per divertimento ma solo per vincere!».
 
Ultimo aggiornamento: 20:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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