A distanza di qualche mese dall’inizio dell’epidemia da Sars Cov 2 riuscire a quantificare la reale portata del contagio in Italia non è così semplice. I dati ufficiali che il Ministero della Salute e l’Istat hanno elaborato grazie all’indagine di sieroprevalenza condotta dal 25 maggio al 15 luglio sembrerebbero circoscrivere l’epidemia ad un milione e 482mila casi. Eppure, secondo gli esperti il numero dei contagiati è senz’altro superiore. E la ragione sta proprio nel tipo di ricerca effettuata: l’indagine sierologica, che va a scovare gli anticorpi, ha infatti diversi limiti oggettivi. A cominciare dalla quota dei falsi negativi.
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«E’ possibile che a distanza di tempo - precisa Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore di igiene dell’Università degli Studi di Milano - anche nelle casistiche che ho seguito, ci sia una perdita della positività del test. Molto spesso, poi, non tutti sviluppano gli anticorpi». A ciò si aggiunga la rappresentatività del campione esaminato. «In effetti, qualche difficoltà nel reclutamento questa indagine ce l’ha - aggiunge Pregliasco - Non c’è stato entusiasmo da parte della cittadinanza per la paura di ritrovarsi positivi, di doversi accollare poi l’eventuale tampone da effettuare e di rimanere bloccati a casa».
IL FATTORE TEMPO
Non è poi secondario il periodo di riferimento dei test sierologici effettuati sulla popolazione su base volontaria. «Se l’indagine venisse fatta in un momento diverso, è chiaro che verosimilmente potremmo trovare un numero maggiore di persone esposte al contagio», mette in guardia Claudio Mastroianni, direttore della clinica malattie infettive del Policlinico Umberto I di Roma e vice presidente della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali). Per poter disporre di dati più certi, «l’indagine andrebbe fatta sicuramente in comunità più ristrette in cui c’è stato un alto numero di persone contagiate, e questo ci potrebbe dare indicazioni importanti. Sarebbe utile insomma che venisse ripianificata periodicamente». A complicare la faccenda, c’è anche la questione della platea che si è sottoposta ai test, e ai tanti reticenti.«Purtroppo, per la sieroprevalenza il problema dei dati ottenuti è legato al fatto che il campione non è stato raggiunto. Quindi una possibile sottostima ci può essere», osserva Maurizio Sanguinetti, direttore del dipartimento di Scienze di Laboratorio e infettivologiche della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma e presidente della Società europea di Microbiologia e Malattie infettive (Escmid). «Il campionamento iniziale stratificato per età, sesso, regione e stato sociale piuttosto che professione - ricorda Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe - prevedeva 150mila persone stratificate, ciascuna rappresentativa di uno strato, ma siccome in quel periodo c’era il problema che a chi era positivo non veniva offerto il tampone, solo circa metà della popolazione ha accettato di partecipare. È evidente che oggi, tenendo conto del fatto che il contagio sta aumentando, è verosimile che il numero delle persone immunizzate sia nettamente più elevato rispetto a quello che ha documentato l’indagine 4 mesi fa». Che la sottostima si possa aggirare tra il 10 o il 20 per cento, gli esperti per il momento preferiscono considerarla una ipotesi plausibile.

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