​L'analisi / La guerra e il futuro (incerto) della globalizzazione

Sabato 25 Febbraio 2023 di Paolo Balduzzi
Una caratteristica dell’uomo contemporaneo è il suo egocentrismo storico, la sua fretta, cioè, di entrare nella storia. Qualunque avvenimento, che sia di vasta scala e impatto come il cambiamento climatico o un attentato terroristico, oppure che sia semplicemente un evento sportivo o culturale, subisce spesso la narrazione di “evento storico”. Come se la storia si potesse valutare davvero con gli occhi del presente e non con quelli, postumi, di chi ha potuto osservare la persistenza delle eventuali conseguenze nel corso di (almeno) qualche decennio. Il conflitto tra Russia e Ucraina, scoppiato ormai un anno fa, non può ovviamente essere un’eccezione a questa tendenza. Di storico vi è in effetti il fatto che di guerre, sul continente europeo, non se ne sono combattute molte dal 1945 in poi. Tuttavia, ciò è vero solo fino a un certo punto: l’ultimo decennio del 1900, per esempio, ha ridisegnato i confini europei: a volte pacificamente (come nel caso della ex Cecoslovacchia o della ex Germania est), a volte invece in maniera dolorosamente violenta (come nel caso della ex Jugoslavia). A dimostrazione della difficoltà di esprimere giudizi storici nel presente, la dissoluzione dell’ex Unione sovietica in quegli anni non ha evidentemente ancora finito di sortire i suoi effetti: e il fatto che Mosca consideri “suoi” i territori ucraini che ha successivamente invaso, lo chiarisce perfettamente. La sensazione che si ha tracciando un quadro, necessariamente parziale, delle conseguenze del conflitto russo-ucraino dopo i primi dodici mesi è quello di un mondo non così diverso dal passato, salvo qualche scossone di assestamento. Ha ragione chi prevede la fine della globalizzazione e il ritorno in primo piano le politiche nazionali? Difficile da dire. Ma anche da credere. Dal punto di vista economico, infatti, in Italia il 2022 è stato un anno record per quanto riguarda esportazioni e importazioni. Certo, sul valore degli scambi pesano anche i prezzi, lievitati. Ma la sensazione è che le interconnessioni tra Stati siano così strette che, con piccole eccezioni locali, i flussi commerciali non si siano interrotti ma abbiano semplicemente cambiato direzione. Se intendiamo la globalizzazione come un processo internazionale di mobilità di persone e di scambio di merci, del resto, non possiamo certo aspettarci che un fenomeno ormai più che secolare possa essere intaccato da un conflitto di portata, su scala mondiale, piuttosto contenuto. Il termine globalizzazione è stato coniato negli anni ’90 del secolo scorso ma il fatto di aver assegnato un’etichetta al fenomeno non significa certo che questo non esistesse già (di nuovo, l’egocentrismo storico dell’uomo contemporaneo!). La “Ricchezza delle nazioni”, una delle opere più celebri di Adam Smith, nonché una delle più citate soprattutto da chi non ha mai sfogliato il testo, risale al 1776: la ricchezza del titolo fa proprio riferimento alle conseguenze degli scambi commerciali internazionali, una necessità per superare la limitatezza dei mercati nazionali e quindi contribuire ad aumentare la ricchezza – si noti bene – non della singola nazione ma, appunto, delle nazioni coinvolte negli scambi. E guardando ancora più indietro, nel 2024 saranno passati 700 anni dalla morte di Marco Polo, colui che aprì la cosiddetta “Via della seta” con l’estremo oriente, che ancora oggi viene utilizzata. Appare quindi quantomeno prematuro sentenziare, o anche solo prevedere, la fine della globalizzazione, un fenomeno che ha saputo superare anche solo negli ultimi cento anni due conflitti mondiali e altrettante pandemie. Più probabile che cambieranno alcune rotte di scambio e alcune alleanze commerciali, soprattutto sul fronte dell’approvvigionamento di materie prime energetiche. Molto dipenderà dalle sorti della guerra e dall’eventuale cambio di regime (e di leadership) a Mosca. Ci si potrebbe però chiedere se con globalizzazione non si debba piuttosto intendere il processo di liberalizzazione degli scambi commerciali e l’arretramento delle politiche nazionali. Si tratta, in effetti, di un quesito intrigante. Perché, dopo quello storico, fa emergere un nuovo tipo di egocentrismo dell’uomo contemporaneo: quello geografico. In altre parole, ci sembra rilevante solo ciò che accade dove abitiamo: nel nostro caso, in Europa. Alzi infatti la mano chi pensa che Stati uniti, Cina, o la stessa Russia non abbiano implementato politiche nazionali per tutelare l’interesse dei propri cittadini e imprese da sempre. Fa in effetti eccezione l’Unione europea, dove però le spinte centripete e centrifughe si alternano a ondate. Prendendo (arbitrariamente) come punto di partenza della storia europea contemporanea la fine della Seconda guerra mondiale, si osserva un processo ormai quasi secolare di integrazione. Che questa integrazione sia sempre coincisa con assenza di politiche nazionali è però tutto da dimostrare. A livello di scambi internazionali, per esempio, i paesi membri si sono spesso mossi da soli. Ma anche a livello di mercato interno, le (finte) procedure di infrazione per paesi che hanno privilegiato i propri interessi nazionali non sono mancate. Vale per il nostro paese, certo, ma anche per tutti gli altri, con Francia e Germania in prima fila. E il caso più eclatante di prevalenza dell’interesse nazionale, la Brexit, è avvenuta ben prima sia del covid sia della guerra in Ucraina. La quale, al contrario, sta avendo come effetto più probabile l’avvicinamento dell’Europa dell’est all’Unione. Quali saranno dunque le conseguenze economiche e geopolitiche del conflitto? È ancora presto per dirlo. E la risposta, quando ci sarà evidente, potrebbe non essere così scontata.
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