Energia, Bernabè: «Mediterraneo pieno di gas, servono decisioni sulle infrastrutture»

Il presidente di Acciaierie d’Italia: «L’Eni ha un grande ruolo, la decisione però è politica». «Senza i dissequestri degli impianti ex Ilva Invitalia non potrà salire al 60% del capitale»

Domenica 20 Febbraio 2022 di Giusy Franzese
Energia, Bernabè: «Mediterraneo pieno di gas, servono decisioni sulle infrastrutture»

Sarà bene che ci rassegniamo: il costo dell’energia rimarrà alto ancora per lungo tempo.

Almeno fin quando non saranno affrontati e risolti i problemi strutturali di approvvigionamento. Ne è convinto, e ci spiega il perché, Franco Bernabè, tra i manager italiani più apprezzati a livello internazionale, che ha legato il suo nome al rilancio dell’Eni tra le potenze petrolifere mondiali guidandola dal 1992 al 1998. Attualmente è presidente non esecutivo di Acciaierie d’Italia (ex Ilva) e fresco di nomina anche per Dri Italia, la nuova società di Invitalia che dovrà realizzare impianti per la produzione di “preridotto” indispensabile ad alimentare i forni elettrici per le acciaierie, e non si sottrae a un ragionamento sul futuro del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, quello di Taranto. «Lo Stato manterrà le sue promesse di coniugare sostenibilità economica della produzione e giuste istanze di salvaguardia della salute dei cittadini e dell’ambiente. Ma serve tempo, evitiamo aspettative messianiche». 

Presidente, i rincari energetici potrebbero mettere a rischio la ripresa. C’è una considerazione che disorienta il cittadino comune: perché i grandi decisori politici si sono fatti trovare così impreparati? 

«La crisi energetica è iniziata nel secondo semestre del 2021 ed è stata causata in larga parte da fattori accidentali e in parte minore da quelli strutturali. Nel primo caso pensiamo all’improvviso aumento della domanda di Gnl, il gas liquefatto, provocato dalla caduta dì produzione di energia eolica nel Nord Europa, e anche dalla siccità in Brasile che ha visto ridurre la produzione di idroelettrico. A tutto questo si è aggiunto il blocco della vendita di gas spot da parte della Russia che ha fatto schizzare i prezzi. Si pensava fosse un problema di breve termine e alcuni paesi hanno tardato a ricostituire gli stoccaggi per poi affrettarsi a comprare gas quando ormai il mercato era in tensione. Nel frattempo gli obiettivi di risanamento climatico e ambientale nel mondo hanno portato molti governi a ridurre lo sfruttamento delle fonti inquinanti e ad aumentare la richiesta di gas, come sta avvenendo in Cina. Inoltre da cinque anni il tema della transizione energetica è diventato dominante anche nelle grandi società petrolifere, che hanno ridotto gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di idrocarburi». 

La tempesta perfetta. 

«Sì. Ed è chiaro che, con la combinazione di tutti questi fattori, siamo destinati a vivere in un mondo con i prezzi dell’energia non ai livelli massimi raggiunti in questo periodo, ma comunque alti».

Potrebbe aiutare una maggiore gradualità nel raggiungimento degli obiettivi di transizione energetica?

«La svolta green è la direzione che dobbiamo prendere, ma è un processo di enorme complessità. Abbiamo vissuto per quasi tre secoli con una disponibilità di fonti fossili a prezzi estremamente bassi e su questo abbiamo costruito il nostro benessere. L’idea che in pochi anni si possa attuare una trasformazione così profonda è poco realistica. Prendiamo ad esempio le rinnovabili: in Italia a mala pena facciamo un nuovo gigawatt all’anno; per centrare gli obiettivi al 2030 ne dovremmo fare sette. Siamo di fronte a una sfida colossale, affrontata secondo me senza la consapevolezza della complessità. La transizione non si affronta gridando al lupo ma mobilitando capitali e competenze».

Il governo ha varato nuove misure contro il caro bollette a favore di imprese e famiglie più bisognose. Si tratta comunque di interventi che vanno a tamponare l’emergenza. Anche aumentare l’estrazione del gas nell’Adriatico, in realtà, aiuta ma soltanto fino a un certo punto: resteremmo comunque dipendenti dall’estero per oltre il 90% del nostro fabbisogno di gas. Non è così?

«Non c’è dubbio. Il gas è un tema del quale non potremmo fare a meno per un lungo periodo di tempo. Tutta la politica industriale italiana è stata fondata sul gas, perché abbiamo rinunciato al nucleare e ridotto drammaticamente l’uso dì combustibili inquinanti. In un certo senso l’Italia è stata la prima a fare la transizione energetica. Il problema è la diversificazione degli approvvigionamenti. E a guardare bene potrebbe essere anche un “non problema”: a parte l’aumento delle estrazioni in Sicilia e nell’Adriatico che può dare un contributo ma non fondamentale, il Mediterraneo Orientale - Egitto, Israele, Cipro - è pieno di gas e l’Eni ha in quelle zone un ruolo fondamentale. Vanno sviluppate le infrastrutture per portare questo gas in Italia. Ma tutto ciò si può fare se si considera la strategia del gas ancora fondamentale per la sicurezza energetica del Paese».


Se la guerra in Ucraina dovesse diventare realtà, avremmo ulteriori problemi con le forniture di gas?

«Se resta una guerra limitata in determinate zone tra i separatisti e i russi, forse no. Ma se diventa una guerra vera, allora sì. Perché gli ucraini - anche come arma di pressione verso l’Europa affinché intervenga - possono interrompere tutte le forniture di gas russo».

Veniamo alla siderurgia e ad Acciaieria Italia di cui lei è presidente: a breve Invitalia e quindi lo Stato dovrebbe rilevare il 60% delle azioni. Conferma?

«I piani sono questi, ma tutto dipenderà dal verificarsi di una serie di condizioni sospensive. A partire dal dissequestro degli impianti. Oggi nessuno è in grado di dire che cosa succederà a maggio».
Sta dicendo che l’aumento di capitale da parte di Invitalia potrebbe slittare?
«Sto dicendo - ma questo dovrebbe essere noto perché fa parte degli accordi - che non è automatico».


É previsto un piano B?

«Bisognerà esplorare le alternative». 


La siderurgia in tutto il mondo marcia a velocità sostenuta, l’ex Ilva invece va avanti con il freno a mano tirato. Non si può approfittare di questo momento favorevole del mercato per accelerare sui piani? Parlo della produzione ma anche del percorso verso la decarbonizzazione chiesta a gran voce dai cittadini e che lei ha già annunciato non potrà avvenire completamente prima di dieci anni. 

«I problemi dell’Ilva sono complessi. Il nuovo piano industriale c’è ed è stato concordato con gli azionisti. Ho difficoltà a vedere cambiamenti radicali. Per cambiare i processi produttivi bisogna sviluppare l’ingegneria, chiedere i permessi, fare le gare, costruire, mettere in marcia, tutti processi molto lunghi ci vogliono anni. Non si possono comprimere i tempi. Le persone hanno delle attese messianiche, ma non è così che funziona nell’industria». 


La nascita di Dri Italia - totalmente di Invitalia ovvero lo Stato, e di cui lei è stato nominato presidente - come si inquadra in questo scenario?

«È la dimostrazione del fatto che il governo ha tutta l’intenzione di mantenere i suoi impegni. La costituzione della società contribuisce alla realizzazione del piano industriale di Acciaierie che comporta la graduale e progressiva sostituzione dell’area a caldo con forni elettrici».


Il governo nel Milleproroghe aveva dirottato 575 milioni di euro dei fondi sequestrati ai Riva dalle bonifiche ambientali alla decarbonizzazione dello stabilimento. Il Parlamento ha deciso diversamente. Ora sembra che il governo voglia riproporre l’emendamento. 

«Per fare grandi investimenti ci vogliono risorse finanziarie importanti e Acciaierie d’Italia per la sua storia non può accedere al mercato dei capitali privati. Senza quei fondi, occorrerà trovare rapidamente altre soluzioni. Quel che è certo è che il tema Ilva per il governo è strategico, dunque valuteremo assieme quali strumenti mobilitare per finanziare il piano di investimenti».

Ultimo aggiornamento: 14:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA