Vincitori e vinti/Il tradimento del mercato porta al declino

Giovedì 25 Gennaio 2018 di Giulio Sapelli
Il libero mercato tradisce se stesso. È questo il messaggio che viene dagli Sati Uniti, da cui promana il ciclone del neo-protezionismo di Trump. E vediamone il perché, ragionando sul commercio internazionale e le conseguenze che la trasformazione delle sue regole può provocare. Un tempo l’America esportava sicurezza internazionale e sviluppo economico su scala globale, pur con le inevitabili contraddizioni del capitalismo in tutte le sue forme. La globalizzazione pareva accompagnare, all’inizio di questo processo, l’aumento della circolazione del capitale con la creazione di aree di sviluppo umano: si inserivano centinaia di milioni di persone nell’area della crescita capitalistica che generava occupazione e reddito alle famiglie.

Il meccanismo è stato però via via risucchiato dalla deriva sregolata del mercato finanziario, divenuto dominante sull’economia reale, con la caduta degli investimenti a lungo termine a vantaggio della speculazione a breve e il crollo della produttività e dell’occupazione su scala mondiale.

La crescita si è così trasformata in caduta dei redditi e dei meccanismi di ascesa sociale in Europa e negli Stati Uniti, con l’aumento delle povertà e delle disuguaglianze.
La reazione è stata quella di sempre: l’avvio di nuovi protezionismi di cui quello di Trump non è che l’esempio più recente e più rozzo. Sicché il commercio mondiale ha fatto registrare un significativo rallentamento da cui solo oggi ci stiamo a fatica riprendendo mentre il passaggio dai trattati di libero commercio multilaterali ai trattati bilaterali è divenuta la norma.

La conseguenza è la caduta del reddito nei Paesi del Nord e la crescita di multiformi ostacoli all’espansione delle potenze asiatiche ed africane in crescita da molti anni ma sui quali i ripetuti stop and go alla lunga possono rivelarsi fatali. La Cina è l’esempio più gravido di conseguenze di questi processi: se il suo potenziale di sviluppo cala la sua aggressività militare fatalmente crescerà.

Gli Stati Uniti con Trump hanno intrapreso la strada che già Obama aveva battuto con i dazi sull’acciaio cinese, così come aveva fatto e sta facendo l’Europa, al punto che sono ormai innumerevoli gli ostacoli al libero commercio che si ergono in tutto il mondo. I grandi trattati neo-imperiali Usa verso il Pacifico e verso l’Europa - di cui Obama si era fatto portatore - sono stati messi in discussione e si è dovuto ricorrere alla cosmesi del Ceta, ossia dell’accordo tra Canada e Ue, per arginare la catastrofe della caduta del commercio atlantico che sarebbe fatale. Il Ceta è però appeso al filo dell’approvazione di ogni Parlamento nazionale, con tutti i rischi che la cosa comporta. 
Ora Trump annuncia che porrà i dazi anche sui pannelli per il fotovoltaico, aumentando sempre più la pressione. Trump profeta del libero mercato di cui si discute a Davos? Niente affatto. Profeta certo dell’immediata difesa dei posti di lavoro degli operai e delle classi medio-alte nord americane, ma non più realizzando il cosiddetto “eccezionalismo” Usa, ossia l’esportazione del benessere economico al di fuori dei confini nazionali, processo che faceva la grandezza dell’egemonia e non il semplice dominio americano sul mondo. Secondo Trump, gli Usa devono fare dello slogan American First lo strumento per drenare ricchezza mondiale a vantaggio degli Stati Uniti, incrinando in tal modo l’equilibrio di potenza internazionale e rischiando d’accumulare fattori che possono portare all’isolamento crescente del Paese dall’Europa e da gran parte del mondo. E ciò sarebbe fatale sia per la crescita economica sia per la tenuta della pace.

Un esempio lampante di questo pericolo sono le misure che Trump ha messo in campo per favorire il ritorno negli Stati Uniti dei giganti dell’online e dell’intelligenza artificiale applicata, ossia Apple, Google, Amazon e i fratelli minori. Per indurre queste corporation a ritornare con i loro centri decisionali e logistici negli Usa, ha premiato il ritorno dei loro capitali con una tassazione del 3% e l’ha vincolata alla creazione di posti di lavoro in terra d’America, creando una eclatante disparità di trattamento e vanificando gli sforzi europei di tassare questi giganti senza perdere i vantaggi che da essi derivano per le nazioni europee. E questo mentre nel Vecchio Continente è in corso una lotta serrata contro l’evasione fiscale compiuta dagli oligopoli della rete.

Tutto il contrario, insomma, di ciò che si dovrebbe fare per promuovere lo sviluppo del commercio mondiale e una lenta ma equilibrata rinascita del capitalismo industriale minacciato tanto dal protezionismo quanto dalla prevalenza di sempre nuove imprese che si fondano su asset intangibili, a bassa produttività e a bassa produzione di occupazione, con una discrasia evidente tra una cuspide di super qualificati professionisti e una massa di lavoratori della logistica e della manutenzione non tecnologica sottopagati e costretti a ritmi di lavoro infernali.
Il sogno americano deve invece continuare a essere una forza motrice della crescita mondiale e non un gioco a somma zero, dove la crescita di un’area segna il declino di un’altra. È del resto quanto sta accadendo nelle relazioni internazionali, tradendo le aspettative che la presidenza Trump aveva creato dopo il dannoso sogno dell’unipolarismo Usa praticato dalle presidenze Clinton, Bush e Obama in seguito al crollo dell’Unione Sovietica.

La crescita mondiale, che pure è riapparsa in numeri convincenti, deve però essere sostenuta da una nuova stagione di accordi multilaterali di commercio che consentano certamente anche forme di protezionismo selettivo - per determinate merci strategiche e per talune nazioni - compensate però da reciproche concessioni che possono anche essere bilaterali, se lo scopo è un funzionamento migliore. Ma ciò richiede il rapido ritorno a quanto manca oggi: la diplomazia, sia per evitare la guerra sia per evitare il crollo economico e l’interruzione della crescita a causa di un protezionismo non selettivo e brutale che ricorda i tempi più cupi della lotta commerciale condotta a colpi di cannone.

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