Marta Dalla Via: «Le parole?
Non sanno quello che dicono»

Venerdì 21 Gennaio 2022 di Chiara Pavan
Marta Dalla Via in scena il 22 gennaio a Mira

Le parole non sanno quello che dicono, meglio fare attenzione. «È più importante cambiare le parole o le cose che quelle parole intendono?» Il dilemma, per Marta Dalla Via, ha molteplici risvolti, anche comici. Perché ridendo, magari, potremo capirci di più. La narratrice, autrice e regista vicentina, che col fratello Diego da sempre riflette, attraverso le scintille del linguaggio, sulle grandi contraddizioni di un territorio ricco di risorse e ammalato di egoismo e disumanità, stavolta si mette in gioco con uno spettacolo che dietro il divertissment della “stand up comedy” vuole diventare «un mini corso di difesa concettuale da costruire e arricchire insieme al pubblico». E “Le parole non sanno quello che dicono”, in scena sabato 22 gennaio al Teatro Villa dei Leoni di Mira (info su myarteven.it), punta a smascherare «le nostre ipocrisie lessicali».

Nato proprio durante il covid, tra lockwdown e pandemia che hanno riempito social e media di tutte le “parole” (im)possibili, lo spettacolo ideato e diretto dall’artista parte da una considerazione: «Le parole non possiedono un cervello e non hanno auto-coscienza. Non possono essere buone o cattive perché non sono consapevoli».

Ma noi, in realtà, lo siamo. O per lo meno dovremmo esserlo.

«Esatto. Dietro le parole, in fondo, c’è sempre un’intenzione. Che andrebbe capita. Di fatto lo spettacolo è una lunga riflessione con il pubblico, un flusso di pensieri sul valore delle parole. Anche per riderne su. Insomma, che tipo di parole possiamo usare davvero? Pongo anche questa domanda al pubblico che poi voterà».

Il teatro è spazio di libertà.

«Ed è luogo di pensiero, dove possiamo parlare, usare le parole giuste o anche no. Insomma, ci deve essere un “red alert” se si pronunciano certe parole? Dobbiamo capire se il teatro è un posto in cui si va a trovare conferme o dove si vuole essere spiazzati, magari trovando nuovi spunti di riflessione. Io sono per la seconda ipotesi. Come diceva mio papà, l’unico modo per capire cosa sono gli spigoli è andare a sbatterci contro».

E cosa racconterà?

«Fatti veri, parole vere che ho incontrato».

Ad esempio?

«Le barzellette sono l’esempio più importante di struttura narrativa comica: parlano di “cose sporche”, o fanno riferimento alle donne, allo straniero, alla politica, alla salute, agli ebrei. Sono nodi cruciali sulla società contemporanea. Forse perché esorcizzano le nostre paure, i nostri tabù. Allora io provo a fare questo esorcismo».

Trova le pecore nere del linguaggio.

«Pensiamo alle bestemmie, ad esempio, a Meneghello, ai Babilonia. Si può? Non si può? Chiaramente il tema non è la religione, ma un esercizio artistico che cosa sono le parole. Dipende sempre dal contesto in cui sono collocate».

Come l’auto-assoluzione con era solo una battuta” dopo un’offesa terribile.

«Ecco, sì: una battuta, se è una battuta, non è mai solo una battuta. Ogni comico sa dire al re che è nudo, magari il re non è contento, ma il resto del mondo capisce e ride. Sul palco faccio una vera e propria dichiarazione universale di liberazione di vocali e consonanti. Sono solo lettere e parole se le svuoti di significati: ma dove le metti e come le usi hanno importanza».

Cosa l’ha colpita?

«Partivo dal fatto che le giovani, adesso, si chiamano spesso “stronza” l’una con l’altra, in tono amichevole, un po’ sulla scia delle americane che dicono “bitch”. Quindi, se mi dice “stronza” un’amica mia, va bene, ma se me lo dice altro è un’altra cosa. Eppure la parola è sempre la stessa. Ciò che cambia è la comunità di riferimento».

E le offese?

«Se tu decidi che non vuoi offenderti, nessuno può offenderti. Quindi: posso evitare di offendermi? Ne discuterò col pubblico».

Meglio riderci su...

«Esatto, alla fine voglio vedere fin dove posso spingermi con mio humour linguistico: io sono per una comicità che crei conseguenze, non per quella che consolidi le convenzioni. Vedremo che accade». 

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