Rugby Italia, Gonzalo Quesada, il primo ct argentino degli azzurri: «Insieme daremo un'identità alla nazionale» Sei Nazioni: calendario, tv e biglietti

Lunedì 15 Gennaio 2024, 07:23 - Ultimo aggiornamento: 1 Febbraio, 19:10
Rugby, Sei Nazioni al via il 2 febbraio. Quesada, il primo ct argentino: «La mia Italia senza paura» (Da sinistra Foto Cfp e Diego Forti)
di Paolo Ricci Bitti
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Gonzalo Quesada, il primo ct argentino dell'Italia del rugby, ha ricordi nitidi degli azzurri, nitidissimi: mettiamo quelli del 1998?
«Sì, ricordo bene: arriviamo a Piacenza con i Pumas (la nazionale argentina, ndr) per il test match autunnale, parto titolare, numero 10, e perdiamo contro la nazionale di Georges Coste».

Mettiamo quelli del 2000?
«Andiamo pure avanti. Arrivo a Narbonne, il mio primo contratto all'estero, sono reduce dal Mondiale 1999 in Galles e da un'operazione per pubalgia dalla quale non avevo ancora recuperato e parto titolare contro uno squadrone come lo Stade Francais. Avversario diretto Diego Dominguez, mediano di apertura dell'Italia che mi aveva battuto nel 1998 a Piacenza. La strategia era semplice, dare la palla a Alessandro Stoica, centro dell'Italia, mio nuovo compagno a Narbonne: alla fine, per fortuna vinciamo noi».

Passiamo a quelli del 2011?
«Magnifico, sono assistant coach del ct della Francia, Marc Lievremont. Arriviamo al Flaminio per il Sei Nazioni, i Bleus non hanno mai perso nel Sei Nazioni dagli azzurri, anzi non hanno proprio mai perso in Italia. Ma l'Italia (allenata da Nick Mallett, ndr) ci sorprende, fa una grande partita e porta a casa un successo storico e meritato».

Altri ricordi lieti legati ai rugbysti italiani?
«Un'infinità. Allo Stade Francais ho giocato con Mauro Bergamasco e il fratello Mirco, grandi talenti. Di più, con loro ho comprato casa e ci siamo ritrovati vicini, ci divideva un muro. Così ho conosciuto anche il papa Arturo e altri familiari dei fratelli: sono nate grandi amicizie. E poi il mio capitano quando ho allenato lo Stade era Sergio Parisse, un fenomeno e un grande amico. Al Racing 92 ho allenato i grandi Andrea Lo Cicero e Santiago Dellapè. E ho frequentato, sempre a Parigi, Martin Castrogiovanni, quando giocava al Racing e io allenavo lo Stade».

Dev'essere allora per questa stima nei confronti degli azzurri che ha deciso di allenare l'Italia, la squadra più debole del Sei Nazioni, anzi di tutta la prima "fascia" del rugby mondiale?
«Guardi, diciamo così: dopo il ko a Wellington contro gli All Blacks in '97 e dopo la sconfitta a Piacenza nel 98, per i Pumas è iniziato un nuovo percorso, la transizione verso il professionismo, e l'anno dopo siamo arrivati ai quarti di finale dei Mondiali. Anche nel 2011, dopo la sconfitta del Flaminio contro l'Italia, con la Francia siamo stati protagonisti al Mondiale: forse non meritavamo di giocare la finale contro gli All Blacks (persa 8-7 ndr), ma avremmo meritato di vincerla. Allenare gli azzurri rappresenta per me una sfida formidabile, affascinante e sono onorato della fiducia che il presidente della Fir, Marzio Innocenti, mi ha concesso permettendomi di misurarmi con la responsabilità, per me inedita, di allenare una nazionale».

Beh, non avrà mai allenato una nazionale, ma ha portato supersquadre come lo Stade Francais, dal budget simile a quello dell'intera Fir, a vincere lo scudetto nel 2015 e la Challenge Cup nel 2017.
«Sì, grazie, e in entrambi i casi il trofeo l'ha alzato proprio il capitano Parisse. Si tratta sempre di seguire un vasto numero di giocatori di alto livello, e proprio la gestione dei gruppi è sempre stata la centro dei miei studi e delle mie letture, ma con la nazionale si ha meno tempo rispetto al club».

Tempo? Lei ha giusto un mese e una manciata di allenamenti per allestire la squadra che nel Sei Nazioni affronterà a Roma il 3 febbraio l'Inghilterra, terza squadra al mondo.
«Eh, bell'inizio proprio in casa, poi andremo a Dublino e Parigi, belle scalate contro giocatori che, a differenza degli azzurri, hanno avuto un periodo sensibilmente più lungo per recuperare, dalle tre alle cinque settimane dopo il mondiale. Faremo il massimo: grande ambizione, ma anche piedi per terra, pronostici non ne faccio. I primi passi non possono che essere nel segno della continuità, non c'è tempo per fare rivoluzioni, ma stiamo già seminando i concetti delle strategie che contribuiranno a dare un'identità alla nazionale. Che non è la mia identità, ma quella che insieme ai giocatori decideremo di costruire in base al gioco che imposteremo e che sarà legato alle nostre virtù e ai nostri limiti».

Si può azzardare, in sintesi, una squadra meno avventurosa in difesa e più concreta in attacco?
«Di certo avrà una nuova strategia di gioco, ci sarà un'evoluzione nelle nostre strutture di "uscite di campo" (difesa) e in quelle di attacco».

Il capitano Michele Lamaro è saldo in sella?
«Sì, ma mi piace l'idea di un "consiglio" dei leader della squadra».

L'Italia è nel Sei Nazioni dal 2000, l'Argentina nel Quattro Nazioni dal 2012: gli azzurri sono undicesimi nel ranking mondiale, i Pumas settimi. Fino al famoso match del 1998 le due nazionali erano alla pari (3 vittorie testa) poi il baratro di 14 successi argentini e solo 2 italiani, l'ultimo nel 2008.
«Evidentemente non c'è stato un ricambio generazionale dopo l'avvento del professionismo, ma non conosco la realtà italiana dei primi Anni Duemila. In Argentina si è costruita una via virtuosa che collega strettamente Club, franchigia e nazionale. Me ne occuperò anche in Italia partendo proprio dai club che con l'aiuto della federazione devono essere forti e allargare la base dei praticanti, mentre le franchigie - come in Argentina per i Jaguares - sono l'opportunità per avvicinare i migliori giocatori al livello internazionale».

Eppure dalle Ande agli Appennini negli ultimi 40 anni sono arrivati in Italia migliaia di rugbysti oriundi argentini, alcuni portentosi.
«Un fenomeno storico molto interessante: quando in Italia c'era poco lavoro, a cavallo dei due secoli scorsi, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, gli italiani hanno trovato lavoro in Argentina. Molti di loro di sono stabiliti oltreoceano e hanno dato la possibilità ai loro discendenti, fra i quali tanti rugbysti di tutti i livelli, di emigrare in Italia col passaporto italiano quando è stata la volta dell'Argentina a soffrire per una situazione economica deteriorata. Il legame fra noi è fortissimo».

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