dalla nostra inviata
BERGAMO - Dopo tre anni, 13.640 morti solo nei primi nove mesi del 2020 (quando in tempi normali erano poco più di 7.600) e una maxi inchiesta della Procura, parlare di Covid a Bergamo e provincia smuove sensazioni contrastati.
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I LUTTI
Chi invece del ricordo ne ha fatto la sua battaglia sono i familiari delle vittime, riuniti in un’associazione. «Non vogliamo vendetta, chiediamo giustizia», ripetono. Hanno subito perdite dolorose e si sono sentiti abbandonati, hanno pagato mascherine 40 euro e saturimetri 60. «La gente moriva a casa senza ossigeno - racconta l’avvocato del comitato Consuelo Locati, il papà ucciso dal virus - Riuscite a immaginare cosa significhi non trovare nessuno che spieghi il funzionamento di una bombola d’ossigeno, quando la trovavamo? Cosa voglia dire inventarsi sanitari per capire quanto ossigeno erogare a chi ne aveva fame e non riusciva neppure a respirare?». Anche Antonella Dell’Aquila piange il papà, si chiamava Pietro ed è morto il 6 aprile 2020. «Si è ammalato il 12 marzo, quando ancora si diceva che fosse un’influenza - ricorda - L’abbiamo curato noi a casa, senza tampone né mascherine, finché non è stato ricoverato in ospedale. Era già troppo tardi. “Lo stiamo accompagnando”, ci hanno spiegato al telefono. L’ho rivisto in un’urna al cimitero di Alba, perché in Lombardia non c’era più posto nemmeno nei cimiteri. Spero che questo sacrificio non sia vano, sono persone, non numeri».
Finiti in una contabilità del dolore che ha la sua unità di misura nel numero dei morti. A Nembro, solo a marzo 2020, i decessi sono stati 152, cinque al giorno, in un paese dove solitamente ce n’erano dodici in tutto il mese. Ad Alzano 114 contro 10, a Zogno 89 rispetto a 8,2, più di dieci volte l’andamento storico. Nel primo pomeriggio Rosa Brambati, 75 anni, si affretta per una visita all’ospedale di Alzano. «Tutte le volte che vengo qui mi si stringe il cuore. Mio marito era ricoverato in medicina generale a febbraio 2020. È entrato sano e ha preso il Covid. Non mi stupisce, qui era tutto un via vai di visitatori e all’interno non c’erano precauzioni». Per la Procura di Bergamo sarebbero almeno 36 (due dei quali morti) i dipendenti del Pesenti Fenaroli contagiati a causa della mancata adozione di «tutte le misure tecniche, organizzative e procedurali» utili a «contenere la diffusione del virus» nella struttura. «Dire chi ha sbagliato, secondo me, sarà veramente difficile. Bisognerebbe mettersi nelle condizioni di chi si vedeva arrivare tutti quei malati», riflette Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs. Ciò che bisogna fare adesso «è non dimenticare e attrezzarci, in questi tre anni si è agito poco per mettere in sicurezza il nostro sistema sanitario nazionale». Tra coloro che hanno patito inesperienza e solitudine c’è Salvatore Mazzola, panettiere di Nembro. «Ci aspettavamo la zona rossa per Carnevale. Io mi sono portato i vestiti in negozio per trasferirmi a vivere lì e non portare il Covid in casa. E invece niente, non hanno chiuso. Mio padre aveva 81 anni, era un ex insegnante di educazione fisica, aveva una tempra forte e stava benissimo. Il 9 marzo accusa i primi sintomi, il 17 peggiora e ci consigliano di contattare un numero verde per non intasare i pronto soccorso già al collasso. Hanno fatto fare la diagnosi a me: “Respira bene? Quante tachipirine prende al giorno?”».
LA PAURA
In tutto questo, dice Salvatore, non ha mai fatto un tampone e nemmeno i famigliari in quarantena. «A fine marzo, mentre ero recluso in negozio, mi chiama mia moglie e mi dice che il papà non riesce più a respirare. Aveva la saturazione a 60. “Ma a 60 si muore”, mi dicono in ospedale, “perché non ce lo avete portato prima?”. E alla fine non ce l’ha fatta». In quei mesi Nembro era una bolla di disperazione. «Entravano i clienti e facevano l’elenco dei parenti deceduti. C’era solidarietà ma anche molta paura, ci chiedevamo quando sarebbe toccato a noi. Poi ci siamo sentiti dire che era stato fatto tutto bene».
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