In convento tra saor e bigoli

Domenica 19 Maggio 2019
In convento tra saor e bigoli
LA STORIA
Le chiamavano «spese da bocca» ed erano i registri contabili dei generi alimentari acquistati nei conventi e monasteri veneziani. Ai Frari sono conservati 175 archivi di monasteri soppressi, il più antico è quello del monastero dell'isola di San Giorgio in Alga, relativo agli anni 1467-68. Si arriva fino al 1806, gli elenchi sono più o meno approfonditi o continui, comunque la maggior parte è relativa al Settecento. Li ha studiati Michela Dal Borgo, archivista ai Frari, che ha potuto in tal modo ricostruire quali fosse l'alimentazione nei conventi veneziani. Cominciamo col dire che si mangiava peggio rispetto alle mense nobiliari, ma di sicuro meglio che nella media del popolo. Nei conventi non mancava mai il brolo, l'orto, e quindi una quota dei generi alimentati era autoprodotta: la frutta, la verdura, si tenevano le galline e quindi c'erano uova. Si coltivavano le viti e il vino era considerato un vero e proprio alimento, non una semplice bevanda. «Il vino forniva un primario supporto fisico nelle carenze alimentari», precisa Dal Borgo, «tanto che lo davano a tutti, comprese le putte ospiti nei conventi femminili e negli istituti di carità». Il resto, quello che non poteva essere autoprodotto, veniva comperato da fornitori di fiducia, soprattutto farine e cereali: si consumavano orzo, lenticchie, avena; poco riso, invece, evidentemente considerato alimento di lusso. Alcuni conventi facevano il pane, mentre altri, invece, lo compravano già fatto e arrivava soprattutto da Mestre.
ORTAGGI, PANE E PESCE
Naturalmente venivano rigorosamente rispettati i periodi di magro e i giorni di digiuno e di conseguenza si registra un'importante presenza del pesce, quasi sempre di laguna e raramente di acqua dolce, quest'ultimo era considerato più pregiato e veniva utilizzato nelle mense nobiliari. Anche conventi e monasteri non erano tutti uguali, ce n'erano di più ricchi e di più poveri e queste differenze si riflettevano sul cibo consumato. Nei conventi degli ordini mendicanti, che vivevano soprattutto di elemosine, era più forte la presenza delle panade, le zuppe di pane vecchio proveniente dalle cerche cotto nell'acqua o nel brodo. Ce n'erano di molti tipi e potevano o meno prevedere la presenza anche di altri ingredienti. La più semplice di tutte (e non particolarmente saporita) consisteva in pane grattugiato, setacciato e cotto nell'acqua.
IL MENU
Nei conventi e nei monasteri si consumavano tre pasti principali, in qualche caso anche una merenda. Il pasto più importante era quello di metà giornata, alla sera spesso si finivano semplicemente gli avanzi del pranzo. Si apriva sempre con una minestra, spesso asciutta, che consisteva in vermicelli, bigoli, o pasta di Puglia, condita con burro e formaggio (non nei giorni di magro) e con l'eventuale aggiunta di verdure di stagione. Il secondo poteva essere di pesce, lesso, arrosto, in saor, pastissà. Alcuni di questi pesci avevano nomi dei quali abbiamo perso quasi del tutto la memoria, tipo il boca in cao (pesce frate) o il corbo d'aspreo. Altri invece ci sono ancora familiari, dai polipi alle moleche. Importante anche la presenza dei gamberi di acqua dolce, un tempo molto comuni, oggi purtroppo quasi scomparsi. Per quanto riguarda la carne poteva essere di manzo o di maiale, lessata, cotta allo spiedo, in sguasseto, pastissada, spezzatino o in saor, nel caso si trattasse di riciclare carne avanzata. Anche le polpette erano un modo per consumare gli avanzi del pasto precedente. Si trovavano verdure di stagione, ma, osserva Dal Borgo «non c'era un gran consumo né di frutta né di verdura». Si bevevano anche caffè e cioccolata, seppure non in grande quantità e più cioccolata che caffè, a conferma del fatto che la cioccolata era la bevanda dell'aristocrazia e del clero, mentre il caffè lo era della nascente borghesia.
I DOLCI
Un capitolo a parte, invece, meritano i dolci. «I veneziani erano tutti dei golosoni», sostiene Michela Dal Borgo, «ma le monache battevano tutti. Avevano sviluppato delle loro tipologie di dolci che vendevano fuori dai monasteri per ricavarne un aiuto al proprio sostentamento. A San Zaccaria, alla fine del Cinquecento, le monache non fanno altro che cucinate bussolai e calissoni», Questi ultimi erano una sorta di ravioloni dolci ripieni. Le ricette, invece, mancano: ce ne sono arrivate appena due. «La più antica ricetta di cucina conventuale è proprio quella dei bozoladi di moneghe che compare nel Libro per cuoco del secolo XIV», sottolinea Dal Borgo. Un'importante testimonianza della produzione dolciaria conventuale ci è fornita dal patrizio veneziano Giorgio Francesco Muazzo, morto pazzo a San Servolo nel 1745. In un manoscritto di proverbi, detti, storie, conservato ai Frari, elenca: «I savoggiardi de San Lorenzo, le persegae de Santa Lucia, i pan de Spagna delle Convertite alla Zuecca, i bussolai forti de San Zuane Lateran, i bussolai da zoppa del Sepolcro, i crostoli celeberrimi delle muneghe dei Miracoli. Una volta giera famosi certi bussolai grandi, forti, de smisurata grandezza, che facea le muneghe, de Santa Giustina qua in Venezia, ma adesso credo che no le ghe ne fazza più».
I LIQUORI
I religiosi maschi, invece, si dedicavano alla produzione di liquori: erano famosi il mistrà dei cappuccini della Giudecca, offerto ai fedeli in occasione della festa del Redentore, i distillati a base di assenzio e bacche di ginepro capodistriane dei camaldolesi di San Michele in Isola, i rosoli e le acque di cedro di San Salvador. Talvolta dai registri emergono anche singole storie. Il dettagliatissimo «libro de bocca» del monastero di San Secondo (l'isoletta oggi coperta di sterpaglia accanto al ponte della Libertà) relativo al triennio 1642-45, illustra cosa mangiassero i 5-6 monaci che ci vivevano, ma anche il fatto che l'isola fungeva da ricovero per chi veniva colto dalle tempeste nel percorso da Venezia alla terraferma, nel qual caso si provvedeva a rifocillare gli ospiti con qualche frittata. Un giorno però capita che si fermino i nobili Grimani e quindi l'abate fa cucinare due chiurli uccelli palustri che gli erano stati regalati. Un ulteriore aspetto interessante era quello dei sequestri, per esempio di pane non bollato, o di cibo di contrabbando.
BUTTATI IN CANALE GRANDE
Se gli alimenti erano guasti venivano buttati dal ponte di Rialto, se invece erano buoni venivano redistribuiti a conventi e scuole di carità. Il pane, ancora una volta, serviva per cucinare le panade che dovevano costituire la base, noiosa e insapore, del nutrimento degli ospiti degli istituti di carità. Nell'istituto della Pietà, quello dove insegnava Antonio Vivaldi, nel 1712, solo le maestre del coro erano privilegiate con un vitto più abbondante, seppur non molto vario: pane, una minestra di riso, vino da maestra, carne bovina o uova e solo al sabato due pesci, non meglio specificati. Non vengono nominati latte, verdura e frutta, in una dieta che risulta in tal modo carente di vitamine e sali minerali. Le fanciulle, poverette, se la passavano ancora peggio.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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