IL PERSONAGGIO
ROMA «Peccato che non sei nato in Inghilterra» gli disse

Martedì 13 Aprile 2021
IL PERSONAGGIO
ROMA «Peccato che non sei nato in Inghilterra» gli disse nel terzo tempo l'avversario che dell'Inghilterra era il capitano e che si era appena dannato l'anima per battere, con una squadra di contea, la nazionale azzurra del 1970 in trasferta. Una nazionale allora per nulla considerata dalle Grandi e guidata da un'intrattabile terza linea centro, un ragazzone genovese biondocenere più noto all'estero che in patria. Marco Bollesan, timoniere della mischia, meritava l'enorme complimento: era già il giocatore di rugby più conosciuto in Italia quando in Italia il rugby non era conosciuto.
WALK OF FAME
Ieri è salpato nelle nebbie del ricovero in una casa di cura a Bogliasco ed è entrato nella luce della gloria alimentata da una vita corsara non solo in campo. L'unico rugbysta nella Walk of Fame al Foro Italico del Coni è morto a 79 anni, nello stesso giorno che si è portato via l'asso Massimo Cuttitta: era stato azzurro 47 volte dal 1963 al 1975, quando la nazionale giocava 3 o 4 partite l'anno; capitano per 34 match; ct alla prima coppa del mondo del 1987, quella con il risultato migliore, e poi navigato allenatore di club a Milano e team manager degli azzurri. Due scudetti da giocatore, Partenope Napoli e Brescia, e tre mancati di un soffio con l'unica squadra che portava nel cuore, il Cus Genova. Figlio di un veneto e di un'emiliana, si infuriava con chi gli sottolineava troppo i natali a Chioggia (Venezia), per non dire di chi sosteneva Zagabria. «Sono genovese, punto. Cresciuto nelle risse dei caruggi e innamorato del rugby perché mi ha strappato a una vita che poteva non mettersi bene ».
Di fatto il primo italiano professionista in Italia, ché grandi acciaierie, da Genova, dove è stato tirato su dalla nonna materna, a Napoli, chiudevano un occhio sui turni di lavoro di quel talento che avevano assunto per rafforzare la squadra della città. Qualcuno - ipocrita - gli dava del mercenario, ma intanto non fuggì mai verso il professionismo marron della Francia che lo voleva, e poi davvero nessuno poteva rivaleggiare con il suo coraggio e la sua leadership.
E' stato anche il primo rugbysta chiamato a fare da testimonial nella pubblicità, anni 70 e 80, quando mete e placcaggi erano vagamente noti alla maggior parte degli italiani solo grazie a due réclame: quella di un orologio americano (Timex) e quella di una schiuma da barba a dir poco miracolosa visto che riusciva ad addomesticare la pellaccia di un duro come Ballosan, inquadrato in primo piano con il viso affiancato a un pallone (ovale) di cuoio certo più soffice delle sue guance segnate da mille cicatrici, di cui Marco si vantava già alla prima birra.
BATTUTO IL COVID
L'estate scorsa, nonostante il fisico assai prosciugato dalla malattia, era riuscito a mettere al tappeto anche il Covid: fin da ragazzo è stato un tipo tosto per farsi largo in un mondo che gli aveva riservato poche comodità e pure il dolore di piangere troppo presto l'adorata prima moglie Mariangela, nome da lui dato anche a giocate della mischia. Ed era sempre pronto a dividere il molto o il poco che aveva con gli altri: ultrasettantenne si buttò senza pensarci un attimo fra le onde altissime del porticciolo di Boccadasse, dove era andato ad abitare, perché la tempesta stava ghermendo le piccole barche dei pescatori-pensionati. Si fratturò un braccio, ma salvò quelle barche come il gigante Gulliver con i lillipuziani.
I MINATORI GALLESI
Chi lo ascoltava per la prima volta poteva pensare che i suoi roboanti racconti di rugbysta ai quattro angoli del mondo fossero incredibili: dallo scambio di cartoni con il veterano colosso francese Crauste Le Mongol (e Bollesan era al debutto) ai gallesi sporchi di carbone che passavano direttamente dalle miniere ai placcaggi. Invece era tutto vero, una magnifica sceneggiatura della sua vita finita nero su bianco nel libro Una meta dopo l'altra scritto nel 2012 per Limina da Gabriele Remaggi, un genovese ugualmente giocatore di rugby, un pilone letterato che tristemente ci ha lasciato ancora prima di Bollesan il guerriero, il protagonista dell'epopea della palla ovale italiana che ha aperto i primi varchi nella difesa dell'arroccato establishment anglosassone, varchi poi allargati dalle generazioni successive approdate al Sei Nazioni. Se si ritiene che lo sport e la vita possano di continuo intrecciarsi e sostenersi a vicenda, quel libro è il testamento-manifesto di Marco Bollesan da leggere dopo averlo salutato per l'ultima volta senza lacrime, come avrebbe voluto lui.
Paolo Ricci Bitti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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