Il Pd si spacca sull'intesa con M5S E ora Renzi minaccia la scissione

Martedì 23 Luglio 2019
LE TENSIONI
ROMA Non si sa se per stanare o per provocare, fatto sta che Dario Franceschini, con la sua proposta hard di dialogo spinto con il M5S, basato finanche su una «condivisione di valori», un risultato sicuro lo ha ottenuto: è riuscito a stanare i renziani e Matteo Renzi in persona. Al punto che l'ex leader, per la prima volta, evoca lo spettro della scissione laddove avverte papale papale «non voterò la fiducia a un governo Pd-M5S». E non votare la fiducia a un governo di cui si farebbe parte è l'anticamera del commiato. A chi lo aveva cercato per interviste, Franceschini aveva detto che non intendeva parlare adesso, «ci risentiamo a settembre», poi ci ha ripensato ed è uscito con una intervista al Corriere che riapre alla grande lo scontro interno al Pd. Per Dario il pugnace, come veniva chiamato, «Lega e M5S non sono la stessa cosa», laddove è Salvini l'uomo nero mentre i Di Maio al massimo sono grigi; di più, è stato un grande errore «tattico e politico» avere favorito il connubio di governo gialloverde, e in questo la responsabilità viene affibbiata «alla strategia dei pop corn», in breve a Renzi. Il quale Renzi non è tipo da incassare, prende la tastiera e verga un lungo messaggio su Facebook in cui dà del «masochista» a Franceschini («che senso ha rincorrere Di Maio per solo sentirsi dire con il Pd mai?, non è tattica politica, è masochismo»), poi ricorda all'ex sodale di ex maggioranza che non accetta consigli «da chi ha perso finanche nel proprio collegio di Ferrara», quindi invita a non tirarlo in ballo per giustificare intese che l'elettorato dem in primis non gradirebbe, e infine il grido di battaglia: «Mai la fiducia a un governo con i cinquestelle». E Zingaretti? A una domanda su un possibile governo Pd-M5S, il segretario dem ha risposto come ha sempre risposto in questi tempi: «No a questo tipo di governo, il Pd è per le elezioni subito». Da qui sono circolati voci sussurri e grida che Zinga avesse disconosciuto il Franceschini pensiero, ma non è così.
Il segretario dem condivide l'analisi che Lega e M5S non siano la stessa cosa, così come condivide la prospettiva che bisogna lavorare per incunearsi nelle loro contraddizioni anziché favorire un loro ravvicinamento, tutte cose, fra l'altro, spiegate a chiare lettere nel libro di Zingaretti uscito qualche mese fa. L'attuale maggioranza del Pd non esclude una convergenza con i cinquestelle, ma il tutto deve avvenire dopo un passaggio elettorale che sancisca un riequilibrio tra le due forze e un conseguente ricambio al vertice grillino, un'intesa, in sostanza, non può essere fatta con Di Maio, che non a caso appena se ne parla riapre il fuoco di sbarramento contro il Nazareno. Nel Pd tornano a spirare i venti di scissione. O meglio, sembra aver preso corpo il partito interno di quanti spingono perché Renzi e renziani togliessero loro il disturbo, o per fondare una nuova aggregazione o più sbrigativamente per liberare posti in lista.
GLI INDIZI
Ci sono vari indizi in proposito. In Senato Renzi ha annunciato che intende prendere lui la parola nel dibattito su Salvini, ma dalla maggioranza del partito hanno già fatto sapere che «così non va bene, per il Pd può parlare uno solo e lo si decide insieme», e infatti il gruppo dei senatori si riunisce oggi. C'è poi il caso Faraone, il segretario siciliano sanzionato ed estromesso a suon di commissione di garanzia, che per i renziani è un casus belli di cui chiedere conto al segretario, ma Zinga non è nenche detto che ne parlerà alla direzione di venerdì, anche perché l'operazione defenestrazione di Faraone, a quel che raccontano i bene informati, è stata fatta con il benestare dei vertici dei renziani moderati. In Sicilia dovrà andarci un commissario, e anche di peso: è girato il nome di Pierluigi Castagnetti.
Nino Bertoloni Meli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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