Il regista Konchalovsky, vincitore tre volte: «Io e Venezia legati dal Leone, perciò lottiamo assieme»

Martedì 8 Settembre 2020 di Giuseppe Ghigi
Andrej Konchalovsky a Venezia con la moglie Julia Vysotskaya
VENEZIA - È la settima volta che Andrej Konchalovsky è alla Mostra del cinema di Venezia con un suo film. Ha vinto tre volte il Leone d'argento: nel 2002 con La casa dei matti, nel 2014 con Le notti bianche del postino e due anni dopo con Paradise, tre storie incrociate avvenute durante la seconda guerra mondiale. Ora è di nuovo in Concorso con Dorogie Tovarisch!.

«Forse è una pura casualità che i miei film siano stati invitati alla Mostra - dice l'ottantatreenne regista - ma io penso che vi sia una relazione. Venezia ha come simbolo un leone e io sono un leone, quindi combattiamo assieme».

Con la bocca rigorosamente coperta da una mascherina rosso-sovietico, Konchalovsky, figlio del poeta Sergej Michalkov e fratello di Nikita Michalkov, glissa sulle domande troppo politiche.

«Se volete sapere se il mio film affronta il passato ma parla del presente, all'oggi della Russia, vi ricordo che ho spesso affrontato vicende storiche del passato. Ho raccontato la guerra di Troia, la Seconda guerra mondiale, il conflitto in Inguscezia e nessuno si è posto il problema né preoccupato se in realtà mi rivolgevo all'oggi». Eppure, una delle frasi finali del film detta da Lyudmila, convinta militante del Pcus post Ventesimo congresso, appare piuttosto ambigua: «Se ci fosse ancora Stalin».

IL RACCONTO
«Io vengo a conoscenza di certi avvenimenti e li lascio sprofondare dentro di me per un lungo periodo, poi quando ne vedo una forma narrativa li racconto. La guerra del passato per me è la guerra del presente, ne ha le stesse forme paradigmatiche. Nella storia degli uomini si possono ritrovare almeno una decina di archetipi immortali e come ogni archetipo si ripropone nel tempo. Si pensi ad Antigone, ad esempio. Tuttavia, quel che più mi interessa raccontare sono i sentimenti, le passioni e le contraddizioni di chi vive queste fratture paradigmatiche. Sono le emozioni che voglio raccontare e in questo caso è il bivio di sentimenti che prova una donna la cui fede politica non crolla nemmeno di fronte all'evidenza, anche se torturata interiormente».
Glissa anche quando gli si chiede se non vi sia un qualche parallelismo di situazioni tra la vicenda della brutale repressione del film e quella dell'avvelenamento degli oppositori di Putin.

LE SIMILITUDINI
«Si può sempre trovare una similitudine tra il passato e il presente. Io condivido le leggi di Jung, ovvero di una struttura interiore e archetipica della storia degli uomini». Ma aggiunge a questo una frase più ambigua: «Quando c'era una censura molto rigida, come nel passato della Russia sovietica, era difficile raccontare quel che si voleva. Ora possiamo girare quello che vogliamo, ma è una libertà che non ti garantisce di fare un capolavoro. La vita non è in bianco e nero come il mio film che non avrei potuto girare a colori dato che io lo considero un documento del Ventesimo secolo. La vita si presenta piena di contraddizioni: tutto il buono si mescola col cattivo, il bello col brutto, il desiderio con la bontà».
Ultimo aggiornamento: 10:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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