Cinema. L'intervista a Gabriele Muccino: «Le mie tante vite per scoprire i lati nascosti di tutti noi»

Sabato 20 Gennaio 2024 di Chiara Pavan
Il regista Gabriele Muccino alla Mostra del cinema di Venezia

Ha vissuto tante vite, «forse una per ogni film che ho fatto», una per ogni personaggio «famelico di vita» portato sul grande schermo: dall’exploit de “L’ultimo bacio” che nel 2000 lo lanciò a livello internazionale al successo de “Gli anni più belli” e “A casa tutti bene” da cui è poi nata l’omonima serie con Laura Morante, due stagioni su Sky concluse da poco (si attenda la terza). Nel mezzo, tante altre vite vissute in quel di Hollywood, 12 anni passati «nella grande chimera» tra alti e bassi, a girare film accanto all’amico Will Smith che lo scelse per “Alla ricerca della felicità” e poi in “Sette anime”, e a fronteggiare anche le delusioni al box office di “Quello che so sull’amore” con un cast di all star Usa (da Katherine Zeta Jones a Uma Thurman e Gerard Butler) e “Padri e figlie” con Russell Crowe.  Gabriele Muccino non molla mai, sempre in cerca dell’inaspettato, di qualcosa «di esplosivo che mi rimetta in un nuovo movimento». Come il nuovo film, “Here now” che ha appena finito di girare a Palermo, «thriller sulla nostra metà oscura» che uscirà il prossimo inverno. E come anche il libro “La vita addosso” scritto con il critico Gabriele Niola, al centro dell’incontro del 22 gennaio alle 18 a Treviso, a Palazzo Giacomelli sede di Confinduzia Veneto Est che sostiene il progetto, ospite del format “Cinema e letteratura” ideato da Luca Dal Molin, Mario Sesti e Caterina Taricano.

In “Here now” tutto accade in 24 ore?

«Sì, è la storia di una ragazza americana che arriva a Palermo con la sorella, e nel giro di 24 ore, prima che riparta, accadrà di tutto: incontrerà un ragazzo di cui si innamora come accadecd’estate, con l’impeto e i buchi neri che lei si porta dietro.

E poi emergerà la sua natura, quella parte di sè che mai avrebbe immaginato esistesse. Il film è un thriller che spazia tra crime e romance».

Perché questa storia?

«Volevo esplorare cosa accade quando si supera il confine tra lecito e illecito: abbiamo tutti dei lati nascosti che emergono improvvisamente e impetuosamente: sono i nostri traumi, il nostro vissuto, la nostra crescita e anche la nostra natura. Quando le circostanze mutano, possono verificarsi cose inaspettate».

Eros e thanatos: filo conduttore anche della fortunata serie su Sky “A casa tutti bene”.

«Esatto, si svirgola: siamo capaci di blitz improvvisi. L’angolazione della serie tiene aperta questi aspetti. Mi piace muovermi in territori drammaturgici inesplorati. A partire dal film: poi con la serie sono riuscito poi a “muccinizzare” il genere come mai avrei immaginato».

Divertito?

«Molto, anche se è stato un processo lungo e faticoso. Avevo la libertà di dare fuoco alle cartucce per fare esplodere una santa barbara in quella famiglia allargata».

La famiglia è uno dei temi cardine del suo cinema.

«La famiglia è lo specchio del nostro tempo. Nel vetrino che metto sotto il microscopio si riproducono le dinamiche esistenziali e comportamentali della grande società. Passioni e disfunzioni umane, nella famiglia affiorano tutto il bene e tutto il male».

La sua è una famiglia di artisti. E lei come era da bambino?

«Una natura abbastanza solitaria, non sono uno particolarmente incline al cazzeggio, alla socialità superficiale, alle aggregazioni di gruppo senza un fine intellettivo, sto meglio da solo. E così mi scelgo amici e compagne».

Come si sopravvive 12 anni a Hollywood? Difficile?

«Il problema è l’ambizione sfrenata che regge quel mondo: ci sono arrivato nel 2005 trovando ambiente protetto grazie a Will Smith che mi ha fatto quasi da bodyguard. Quando lui si è ritirato per due o tre anni, mi sono trovato da solo in un territorio molto diverso da quello che avevo vissuto».

Che ha visto?

«Hollywood ti usa l’anima, e non ha memoria. Ti porta in alto ma riesce anche a dimenticare in fretta. E poi spesso non coglie le novità che si rivelano nell’inaspettato, novità foriere di qualcosa di bello. Così, se uno o due film non vanno bene, sono spietati».

Si perdono talenti per strada.

«E perdi anche l’arte. Anche perché Hollywood vive di consenso. Meccanismo tremendo».

Come si fa a reggere?

«Devi trovare altro ossigeno. Per me gli ultimi sono stati anni difficilissimi. Anche io sentivo di aver smarrito la rotta. Ero disorientato: ho dovuto raccogliere tutta la mia forza per staccare e tornare in Italia, dove inizialmente non sembrava più facile. In 12 anni l’Italia era cambiata e ho dovuto adattarmi. E la soluzione è stata ripartire dalla famiglia. E così è nato “A casa tutti bene”».

Che è stato un grande successo.

«Volevo raccontare gli italiani, ma anche le tensioni e le trasformazione avvenute nel tempo. Questo mi ha rigenerato. E poi la serie con Sky è stata una fortuna. È stato come girare 8 film, un bagaglio enorme di lavoro, di emotività espressa».

Ai suoi attori chiede sempre moltissimo.

«Li spingo a perdere il controllo, a evitare di programmare la propria messa in scena: li prendo per stanchezza, così alla fine devono ascoltare quello che accade attorno e nel tempo stesso viverlo in modo più autentico».

Il suo libro “La vita addosso”, è una fucina di aneddoti sulle star, dall’amico Will Smith a Tom Cruise a Russell Crowe, Madonna, Steve Wonder.

«Tom Cruise è come lo vedi nei film. È intelligentissimo, un lavoratore devoto al proprio mestiere. Ed è bravo: è Tom Cruise che fa Tom Cruise. Dalla casa di Stevie Wonder non riuscivo più a uscire, ero rimasto nel salone al buio e non trovato l’uscita. Russell Crowe invece è venuto sul set di “Padre è figlia” per una settimana senza firmare il contratto, e io non capivo, non sapevo che fare».

Cosa l’ha spiazzata di più?

«Che è raro trovare persone che riescano a mantenere il loro giudizio critico, perché l’esibizione planetaria a quei livelli pesa. La fama rende l’uomo vulnerabile e attaccabile da tutte le parti. Dà depressioni, dipendenze e molto altro».

È come non avere piedi per terra.

«Sì, perdi il senso della realtà».

E con la lingua inglese? Pacino non si fidò di lei per un film.

«All’inizio, grazie alla fiducia che Will Smith aveva riposto in me, ho imparato l’inglese facendo il primo film. Ora non ho problemi a dirigere un attore e una troupe in inglese, mi viene facile. Con Pacino fu un’occasione persa: lui arrivava da un paio d’anni senza film di successi, e questo non ti permette di fare scommesse, temi di sbagliare di più».

Mai mandato via attori?

«È accaduto, sì, ma raramente: quando un attore non vuole seguirti lo senti subito, quindi se puoi evitarlo lo eviti. Per il resto faccio provini “alchemici” per vedere come funziona tra di loro».

Ma è vero che non riguarda il suoi film?

«Sì, li ho talmente sognati, pensati, lavorati e fatti, che ormai non appartengono più a me, ma agli altri».

Com’è stato lavorare al libro con un critico?

«Un duello tra artisti, una chiacchierata critica, una sfida. Anche perché scrivendo la mia storia sono emerse cose che mi erano sconosciute. Così è stato liberatorio».

Ha vissuto tante vite.

«E' vero, credo che ogni film corrisponda a una fase diversa della mia vita e del momento storico in cui è stato girato. Ogni volta che faccio un film è come ripartire, è un nuovo libro della mia vita. E un film è una questione di vita». 

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