Dante Spinotti, il signore della luce: «Mi diverto a illuminare le stelle»

Venerdì 18 Agosto 2023 di Chiara Pavan
Dante Spinotti il celebre direttore della fotografia amato dal grande cinema mondiale

L'INTERVISTA

Il suo essere “carnico”, «con la testa dura», l’ha sempre aiutato a non mollare mai, neanche quando un set diventava “complicato”, tra star capricciose o registi insopportabili. E con la tensione alle stelle «mi chiedo sempre: ma che ci faccio qui? Voglio tornare a casa». Dante Spinotti ride con gusto rilassandosi nella sua casa in Carnia, luogo dell’anima cui tornare «per ricaricare le pile» e trascorrere del tempo con la famiglia. Una lunga estate italiana per uno dei più grandi direttori della fotografia del cinema mondiale, amato da registi come Michael Mann, Curtis Hanson, Bruce Beresford, Sam Raimi e che ora, proprio in occasione dei suoi 80 anni, il 22 agosto, si racconta in un’autobiografia, “Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta” (Nave di Teseo), scritta con Nicola Lucchi e con prefazione «dell’amico Tony» (Hopkins), in uscita giusto il giorno del compleanno, con presentazione in anteprima a PordenoneLegge il 17 settembre alle 17.30.

Un viaggio a perdifiato in una vita che sembra davvero un film, dalla nascita in Carnia all’infanzia a Lendinara, con la prima Vest Poket Kodak regalata dalla madre che lo porta a diventare, a 11 anni, «il fotografo ufficiale del Lendinara calcio, con le mie foto esposte nei bar: sviluppavo tutto in camera mia sotto il letto». E poi le esperienze in Etiopia con lo zio Renato documentarista, la vita a Milano, l’approdo in Rai nelle prime produzione televisive, fino al sogno del cinema a Roma, a fianco di registi come Sergio Citti, Liliana Cavani, Lina Wertmuller, Ermanno Olmi. Quindi la svolta, l’incontro con Dino De Laurentiis e l’approdo a Hollywood a fianco di Michael Mann in “Manhunter” che lo lancia poi nell’olimpo del cinema mondiale.

La sua è una vita nata “sulla” luce.

«È dal buio che la luce prende forma: è come assistere alla nascita di qualcosa».

La macchina fotografica, un richiamo ancestrale.

«È vero.

Questo talento l’ho sempre avuto, sin da piccolo. In terza media avevo tutti sei, sono stato promosso per miracolo, ma avevo 8 in disegno. Ero bravissimo nei chiaroscuri, ce l’avevo d’istinto quel senso del colore che più mi aiutato nel tempo».

Come si arriva a dare una “funzione narrativa” alla luce?

«Come dice Mann, la luce deve essere funzionale: alla storia, all’emozione, a tutti gli elementi del film. Deve avere un tono. La cosa importante è stabilire un linguaggio sin dall’inizio del film. E col regista serve sintonia. Ma come diceva Storaro, se non becchi il film nelle prime settimane, non lo becchi più».

Aveva la fama di far ringiovanire le star di 10 anni.

«Capitò per “Crimini del cuore” di Beresford, con Jessica Lange, Diane Keaton e Sissy Spaceck. Ma con Bette Midler, era il mio primo film a Hollywood, il provino non venne bene. Stavo tentando di capire risolvere il problema, e camminando lungo il Sunset Bulevard entrai in una storica libreria, e trovai “Come fotografare le belle donne” con tutti i trucchi, l’ho letto in una notte. E i nuovi provini sono andati benissimo».

E con le altre dive? Michelle Pfeiffer ad esempio?

«L’ho reincontrata nel film “Ant Man and the wasp”, ci eravamo conosciuti 25 anni fa sul set di “Paura d’amare” con Pacino: allora mi aveva chiesto di imbruttirla, cosa molto difficile per altro. Gliel’ho ricordato, ma lei mi ha subito ha interrotto, “no no, adesso fammi più bella che puoi”».

Ha seguito pure Sharon Stone in “Pronti a Morire” di Raimi.

«Di una simpatia unica, anche perchè parlava un po’ di italiano: dovunque metti la luce, lei appare straordinaria».

Ma con la Streisand abbandonò il set di “L’amore ha due facce”.

«Eh, Barbra è simpaticissima, ma quando è scontenta e insoddisfatta, diventa fastidiosa e irrispettosa».

Pure con Bodganovic non è stato un bell’incontro...

«Sì, saccenza irritante e scarsa fantasia».

E arriviamo a Michael Mann, un legame importante: “Manhunter”, “L’Ultimo dei Mohicani”, “Heat”, “Insider”.

«Un grande amico. È serio, forte, sicuro. Il mio film più bello, “Heat”, l’ho fatto con lui. Tutti i suoi lavori hanno lasciato un segno. Un genio. E come tale, si rivolge a ciò che non ti aspetti. Sul set controlla tutto. A volte è come Jekyll e Hyde: è l’amico più caro quando sei in famiglia, poi sul set vuole decidere tutto e comandare. E così alla fine ho rinunciato. Anche perchè non mi divertivo più».

Ha rinunciato anche a Spiderman con Raimi. Pentito?

«Mica tanto, ho fatto con Barry Levinson “Bandits”, era più consono a me, e poi c’era Cate Blanchett, grandissima attrice di grande carisma».

E pure alla Bigelow.

«Sì, a “Point Break”, ma dovevo tornare in Italia all’epoca, per salvare l’integrità della mia famiglia».

Con Spielberg invece come andò?

«Ci siamo incontrati una volta per parlare di un progetto poi mai realizzato, mi diede appuntamento all’aeroporto di Van Nuys, vicino a Los Angeles, arrivò col suo jet privato e ci riservarono una stanza, mi parlò per tre quarti d’ora del suo odio per il colore verde, del quadro di Monet che non aveva acquistato perchè troppo verde. Ognuno ha i propri gusti, a Mann invece il verde piace, “Manhunter” era immerso nella luce verde».

Con la fotografia di “Insider” di Mann e “L.A. Confidential” di Curtis Hanson è stato candidato all’Oscar.

«È stato bello, anche se non l’ho vinto: per un mese vivi in una bolla, tutti ti cercano, ti chiamano, sei celebrato e riverito».

Le grandi star che l’hanno colpita di più? A partire dall’amico Hopkins che le ha firmato la prefazione del libro.

«Un gigante, ti può far divertire per ore raccontandoti aneddoti accaduti durante un film, ha una capacità unica di dare vita a personaggi così ricchi di sfumature. L’ho conosciuto in “Red Dragon”, poi mi ha chiamato per chiedermi di curare la fotografia del suo film da regista, “Slipstream”, un grande onore».

E altri attori?

«Sono tanti: oltre alla Pfeiffer, Blanchett e Sharon Stone, metto Elisabeth Holsen, bellissima e scanzonata. Trudie Styler, la moglie di Sting, cara amica da quando l’ho conosciuta in “Mamba”, ho lavorato con lei produttrice in “Il mio viaggio al termine di Napoli”. E poi Diane Keaton, la fantastica Natasha Richardson, Jodie Foster, che è un po’ rompiscatole. E poi Daniel Day Lewis, Robert De Niro...»

E Al Pacino?

«Sempre in ritardo sul set. Ad eccezione che in “Insider”, con Mann aveva fatto un accordo, gli aveva detto “non ti chiamo prima delle 11, ma quando è ora, devi esserci”. Una leggenda vedere recitare lui e De Niro insieme in “Heat”».

Tanti i suoi amici italiani.

«A partire dalla Cavani, una delle persone con cui mi è piaciuto moltissimo lavorare. E anche con Lina Wertumueller, una forza della natura. Salvatores, Tornatore, e poi Olmi, maestro della semplicità, ma anche la persona che più si avvicina al concetto di autore».

Mai avuto voglia di mollare tutto?

«Diciamo che con quest’ultimo film con Barry Levinson, che uscirà il prossimo anno, sono migliorato: molto è cambiato andando in pensione. In fondo quando raggiungi una sicurezza, scegli i lavori con spirito diverso. Questo film, uscirà il prossimo anno, mi intrigava, c’è De Niro che interpreta due personaggi insieme, e mi è venuto in mente di concettualizzare le vecchie foto fatte con i flash, come accadeva negli anni ‘50, quando si illuminava tutto con luci morbide frontali, con il primo piano chiaro e tutto resto indietro nel buio».

Il suo segreto?

«Alla fine mi sono sempre appoggiato al mio essere carnico, con la testa dura. E mi fido delle mie capacità: voglio divertirmi a illuminare una scena. Un divertimento che ti aiuta nei momenti difficili».

Ultimo aggiornamento: 14:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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