Cooperativa Fai fuori dall'emergenza grazie al "comandante Federica"

Domenica 17 Maggio 2020 di Pier Paolo Simonato
Cooperativa Fai fuori dall'emergenza grazie al "comandante Federica"
PORDENONE  - “Ce l'abbiamo fatta: finalmente siamo usciti dall'emergenza grazie ai nostri meravigliosi operatori, guidati dalla comandante Federica”. Il post è di Fabio Fedrigo, direttore di lungo corso della Cooperativa sociale Fai. A reggere il timone sul mare tempestoso nei due mesi di tenebre, portando simbolicamente la nave fuori dalla tempesta, è stata la 44enne pasianese Federica Dal Mas. Pedagogista clinica della onlus pordenonese, è anche la responsabile della comunità alloggio per disabili adulti Il Girasole di Orsago, che raccoglie ospiti al di qua e al di là del confine friulgiuliano. Proprio lì erano esplose all'improvviso le criticità maggiori.

«La bomba era scoppiata a metà marzo racconta Dal Mas -, quando a due ospiti del Girasole era salita la temperatura a 37.5 gradi. Subito era scattato il piano per i sospetti casi di Covid-19: dispositivi di protezione, sanificazione ambientale, isolamento. Il giorno successivo era toccato ad altri due. Poi la telefonata della Direzione sanitaria: Sono positivi. Gelo, tamponi per tutti, compreso il personale. Intanto altri ragazzi hanno iniziato ad ammalarsi ed è stato isolato un intero piano: zona rossa interna. Sono servite rapidità decisionale e operatività da parte di tutta l'équipe, senza mai tralasciare il supporto psicologico ed emotivo agli utenti con un sorriso, un gesto affettuoso, un abbraccio».

OSPITI IMPEGNATIVI
Voi della Cooperativa Fai operate sui fronti più complessi del disagio sociale, con focus su disabili e malati mentali. Quali i nodi maggiori da affrontare con persone che in realtà non si possono controllare?
«Al Girasole vivono una ventina di persone con deficit intellettivo, spesso associato a comorbilità psichiatriche e disturbi del comportamento. Persone mediamente giovani, alcune appena maggiorenni, piene di energia, abituate a muoversi liberamente, a ricevere la visita dei propri familiari, ad avere una rete di relazioni sociali, a usufruire di una serie di opportunità sul territorio. Fragili equilibri psico-emotivi che si reggono sulla certezza di una quotidianità strutturata in maniera funzionale. Tutto è cambiato in poche ore: centri diurni chiusi, tirocini sospesi, stop ad attività e visite. Una convivenza da reinventare. Cercare di avvicinare chi era in grado di comprendere, filtrando adeguatamente i messaggi dei media, è stata la nostra priorità. Una forma di rispetto prima ancora che una necessità tecnica, perché nessuno può vivere fuori dal tempo».



EMERGENZA INTERNA
Che problemi hanno vissuto i vostri operatori-educatori nel lavoro quotidiano?
«Il gruppo è costituito in grande maggioranza da donne, molte con figli, alcuni dei quali piccoli. Non dimenticherò mai quel sabato mattina in cui ho raggiunto la Comunità, per comunicare l'esito dei primi tamponi. Ed era solo l'inizio. Occhi dentro agli occhi e lacrime che rigavano le guance: il pensiero è stato per chi ci aspettava a casa, non per noi stesse. E poi la sensazione che oltre la porta di quell'ufficio il pericolo fosse ovunque. Dobbiamo essere forti, ci siamo dette, bardandoci con i dispositivi di massima protezione. Tutta l'équipe ha garantito disponibilità e impegno, nonostante l'esito dei test ci mettesse spalle al muro».
Nel suo ruolo di responsabile, qual è stato il momento peggiore?
«L'improvvisa perdita di oltre metà degli operatori, colpiti dal virus. Ma non c'è stato tempo per lo sconforto: il servizio richiedeva una serie di azioni tempestive di riorganizzazione. Mentre dalla sede Fai a Pordenone partivano appelli per la ricerca di personale, altri si ammalavano. Su un organico di una ventina di persone, eravamo rimasti in 5».
I RINFORZI
Avete cercato infermieri e oss: chi si è presentato?
«Figure sociosanitarie ed educatori provenienti principalmente da Prata, Caneva, Pordenone, Cordenons, Sacile e Aviano ma anche da San Stino e Ormelle. La maggior parte di loro arrivava da esperienze diverse dalla disabilità. Nell'accoglierli con gratitudine, il nostro impegno maggiore è stato quello di avvicinarli ai particolari bisogni della situazione. Qualcuno dopo pochi turni ha scelto di andarsene, altri si sono messi in gioco con buona volontà e disponibilità. A loro va la nostra gratitudine».
Ma con quale spirito si può andare a lavorare sapendo che alla sera, tornando a casa, si mette a rischio la propria famiglia?
«Il pericolo è concreto e la paura c'è, dietro guanti e mascherine. Si è costretti a non baciare i propri figli per proteggerli».

LA SOLIDARIETA'
Qualcuno vi ha sostenuto in questa fa se critica?
«Non ci è mai mancata un'efficace rete di supporto tecnico e solidarietà territoriale. La presenza e l'impegno della nostra direzione, retta da Fabio Fedrigo, e di tutta la cooperativa, sono stati sostanziali. Come il supporto della Direzione dei Servizi sociosanitari dell'Aulss2. Anche il territorio si è rivelato attento e solidale: amministratori pubblici, commercianti, cittadini. Ci chiedevano di resistere e ci ringraziavano».
Tutto questo dolore le ha insegnato qualcosa?
«Ha messo ciascuno di noi di fronte alle proprie umane fragilità, ma anche evidenziato la capacità di molti di saperle affrontare, trovando la forza per rimanere aderenti al piano di realtà quando tutto sembra sconnesso. Mi ha spinto a mantenermi lucida nella consapevolezza delle responsabilità etiche, misurandomi quotidianamente con il senso di ciò che è giusto fare e che va fatto con umanità. Spero che tutta questa incomprensibile sofferenza possa almeno insegnarci a riconoscere negli occhi dell'altro le nostre stesse paure».
C'è una singola immagine, un atto o una frase che non dimenticherà mai?
«Rispondo semplicemente con le parole di Luis Sepulveda - sorride Federica -: Ammiro chi resiste, chi ha fatto del verbo resistere carne, sudore e sangue». Così sia.
 
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