Università di Padova. La strage di Piazza dei Signori: ecco cosa accadde tra il 14 e il 15 febbraio del 1723

Venerdì 3 Febbraio 2023
Università di Padova. La strage di Piazza dei Signori:

Nell’arco di ventiquattro ore, tra il 14 e il 15 febbraio del 1723, giusto trecento anni fa, tre studenti vengono assassinati per ripicca da una pattuglia di sbirri in perlustrazione per il centro di Padova. Poi si scatena la protesta dell’Ateneo e la Serenissima deve correre ai ripari: i responsabili verranno giustiziati. Una lapide ancora oggi ricorda quell’evento.

Sbiri, merdae buli, de furcha batochii, sucidume soli, nati de stercore porci, de putanarum grandarum ventre cagati. Puro latino maccheronico. Poesia, ma dura come una spada. Arma degli studenti dell'Università di Padova, usata contro gli sbirri trecento anni fa in attesa di giustizia. Questa storia comincia la notte tra il 14 e il 15 febbraio del 1723 a Padova.

Ed è così importante e fondante della libertà che gli studenti hanno sempre invocato, e ottenuto, che da allora il grave e atroce delitto è raccontato in una lapide di marmo in Piazza dei Signori, dove si trovava un'osteria divenuta scena del crimine. Il locale non esiste più, ora c'è una gioielleria.


IL FATTO
I protagonisti sono quattro studenti e una pattuglia di sbirri. La sera de 14 febbraio, gli sbirri fermano gli studenti - che sono armati, come spesso accadeva - e sequestrano le armi da fuoco. Ma è l'indomani che scoppia la tragedia: quegli stessi quattro studenti si muovono per Piazza dei Signori verso il Palazzo del Capitano, fermandosi nella bottega di caffè e liquori di Domenico Ragazzoni. Proprio mentre il sottocapo degli sbirri, Domenico Marziale, sta uscendo dall'osteria delle Tre Spade che sta a fianco della bottega. Il poliziotto vede gli studenti e si piazza - dopo averli ingiuriati e aizzati - con tutta la compagnia degli sbirri armati di fucili dietro i pilastri del portico. Il vice sindaco degli studenti tenta una mediazione ma inutilmente: gli sbirri entrano nella bottega Ragazzoni, inseguono gli studenti anche nei piani superiori. Una fucilata uccide il vicesindaco Giacomo Nonio; è ferito mortalmente anche il giovane conte vicentino Giovanni Battista Cogolo. Due studenti si gettano dalle finestre, uno resta illeso mentre Agostino Beffa Negrini di Brescia si ferisce gravemente. Per sete di vendetta, narrano le cronache, gli sbirri sparano e uccidono anche Giovanni Vedovato, il figlio del gestore delle Tre Spade che si era affacciato al poggiolo di casa invocando aiuto. Dopo l'eccidio, le autorità promettono giustizia rapida. Gli studenti annunciano di disertare le lezioni universitarie. L'Ateneo in subbuglio viene poi chiuso.


RABBIA E SCONFORTO
La Repubblica promette subito un processo e giustizia per gli studenti. Nel frattempo la Serenissima provvede ad arrestare una ventina di sbirri ritenuti responsabili. Ma le acque in città non si calmano. La madre del giovane conte vicentino Cogolo scrive straziata giustizia per l'unico figlio e dice: Il più esemplare castigo de' scelerati per consolatione degl'opressi, per l'essempio de'posteri, per l'editification dei Principi e per decoro della Pubblica Maestà. In attesa del giudizio del tribunale veneziano gli studenti non mollano e appare quasi subito un carme in latino maccheronico intitolato alla Strage degli innocenti del 15 febbraio 1723. Il lungo testo, rime oscene ricostruisce la cronaca carica di volgarità verso gli sbirri, racconta tutto con le parole triviali che gli studenti usavano normalmente contro le forze dell'ordine.


LA SENTENZA
Cominciano le indagini processuali ma le lezioni non riprendono: metà popolazione studentesca rimane a Venezia, pochi in aula, molti tornano nelle loro nazioni d'origine: tutti invocano immediata giustizia verso gli assassini. A marzo gli studenti si ritrovano in una specie di assemblea per riformulare richieste al Magistrato padovano; e riprendono lentamente le lezioni mentre partono lettere per i podestà di Vicenza, Verona, Bergamo e Brescia affinché invitino gli studenti di quelle città a tornare a Padova. La sentenza del processo viene pronunciata il 24 settembre del 1723. Dei 19 imputati sette sono assolti col divieto di tornare a a Padova. Gaetano Fanton, vicentino, l'assassino del vicesindaco Nonio viene impiccato a Venezia tra le colonne di San Marco. Gli altri undici sbirri finiscono all'ergastolo o in carcere per decenni. Il 28 dello stesso mese il Doge ordina al Capitano di Padova di apporre la targa che ancora adesso leggiamo sul luogo del misfatto. Ricordando che, secondo il costume veneto, l'anno nuovo cominciava il 1. marzo si legge: Per il grave et atroce delitto commesso da diversi sbirri lì 15 febbraio 1723 contro alcuni Scolari nell'interno di questa abitazione, furono dall'Eccelso Consiglio di X a 24 settembre 1723 tutti li sbirri rei al numero di 12 a misura delle loro differenti rilevate colpe condannati rispettivamente al patibolo della forca, alla galera et all'oscuro carcere, a tempo et in vita con strettissime condizioni; il che resti a perpetua memoria e della pubblica Giustizia, e della Pubblica costante protezione verso la prediletta insigne Università dello Studio di Padova.


LA RESA DEI CONTI
Il carme popolare intanto aveva già fatto da solo giustizia devastando l'immagine degli sbirri. Un esempio (senza traduzione) di come sono descritti i poliziotti che cominciano a sparare: At illi trufones, sbiri, bricones, buzaradazzi/pessima et infamis fotuorum razza becorum/ bestemiando Deum, Coelum, Sanctamque Mariam/caeperuat passim dare multam schipetadazzas. Quell'episodio non riportò la pace, anzi. Era dal 1407 - quando Venezia vietò a tutti i sudditi di studiare in città che non fossero Padova che gli studenti venivano coccolati e molte intemperanze sopportate; ma poco ripagarono tanta benevolenza. I tumulti più forti sono tutti nel XVIII secolo, almeno quattro sanguinosi episodi. Quello del 1737 ha come cronista un giovane Giacomo Casanova, iscritto a legge, che nelle sue memorie racconta di una sparatoria, seguita ad una piccola scaramuccia, dove due studenti rimasero uccisi dagli sbirri. La pace fu fatta solo dopo l'impiccagione di uno sbirro. Ma scrive Casanova - durante tutti gli otto giorni di tumulto la città fu pattugliata da gruppi di studenti. Siccome non volevo sembrare meno coraggioso degli altri, seguii la corrente (...) Armato di pistola e carabina, correvo per le strade insieme con i miei compagni alla ricerca del nemico, e ricordo che fui molto contrariato dal fatto che la squadra di cui facevo parte non incontrasse nemmeno uno sbirro. Le corporazioni studentesche da allora furono sciolte, senza che cessassero saltuarie violenze studentesche.

Ultimo aggiornamento: 17:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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