Il prefetto Messina nell'anniversario della morte di Borsellino: «La mafia, 31 anni di lotta: non abbassare la guardia»

Mercoledì 19 Luglio 2023 di Egle Luca Cocco
Francesco Messina

PADOVA - Il 19 luglio 1992 è una ferita che ha ricucito l’Italia. Quell’ora più buia prima dell’alba, quella battaglia che va combattuta - e vinta - per non perdere la guerra. Francesco Messina, catanese, oggi prefetto di Padova, il giorno in cui venne ucciso a Palermo il giudice Paolo Borsellino lo ricorda bene.

E ancor di più le settimane successive. «Fui tra i primi a entrare nella Dia, la Direzione investigativa anti-mafia. Sono stato testimone di quegli anni e protagonista della successiva lotta alla criminalità organizzata. E oggi dico che il miglior modo per commemorare le vittime di allora è di non abbassare mai la guardia».


Prefetto Messina, se parlasse davanti a una platea di cento imprenditori padovani, secondo lei quanti sarebbero quelli che consapevolmente o inconsapevolmente sono venuti a contatto con un mafioso?
«Fortunatamente pochissimi o forse nemmeno uno. Perchè la realtà padovana è molto attenta alle tematiche legate alla legalità e perchè qui c’è un’imprenditoria sana e galoppante che di conseguenza diventa imbattibile. Ho avuto modo di incontrare il presidente degli industriali Leopoldo Destro e posso dire che nella categoria c’è grande coscienza su temi così delicati».


Ma ci sono state sia interdittive che indagini.
«Assolutamente sì. Nel Padovano la criminalità organizzata si avvicina al mondo economico con le società cartiere offrendo la possibilità di produrre il “nero”. Trent’anni fa la mafia esercitava il suo potere, sia all’interno che all’esterno, con il proprio apparato militare. Oggi, dopo la risposta dello Stato, non è più così. E la criminalità organizzata è camaleontica, sa adattarsi alle necessità del contesto in cui cerca di insinuarsi. Nel Padovano la porta è quella delle false fatture».
 

E in un momento di crisi come questo può essere preoccupante...
«Lo sarebbe se non fosse che qui ci sono grande senso di legalità e un tessuto economico sano e robusto. Però ritorniamo al discorso iniziale. Che è alla base di tutto».
 

Ovvero?
«Che se vogliamo onorare quelle vittime di trent’anni fa, se vogliamo non dover più rivivere quegli anni drammatici, dobbiamo tenere alta l’attenzione».
 

Vuole dire che in realtà l’incendio non è spento del tutto?
«Vede, in carcere ci sono importanti esponenti della mafia che se tornassero liberi riprenderebbero in mano le redini della propria organizzazione. Organizzazioni che, comunque, continuano ad andare avanti con le loro attività. In questi 31 anni abbiamo fatto tantissimo per contrastare la mafia, lo Stato ha combattuto quella che era diventata una guerra e propria: il nostro lavoro d’indagine non era ex post, ma mentre c’erano morti ammazzati nelle strade. E dalla Sicilia gli attacchi avvenivano anche nel resto del Paese. La debolezza dell’apparato militare è il sintomo dell’inizio decadimento. L’agire mafioso in una realtà come il Padovano o il Veneto è diverso, che guarda al raggiungimento dell’obiettivo con manifestazioni diverse e non plastiche come accade nelle realtà in cui è endemica. Andando appunto a offrire quel “servizio” che l’imprenditore in difficoltà può chiedere. Per questo, ripeto, dobbiamo avere la massima attenzione tenendo alta la guardia».
 

Come?
«Le fondamenta sono quattro e di carattere nazionale: il 41 bis per bloccare la comunicazione tra gli esponenti mafiosi che sono in carcere e chi gestisce le organizzazioni, l’ergastolo ostativo; i collaboratori di giustizia e le misure patrimoniali. Queste ultime sono fondamentali perchè vanno a colpire la ricchezza accumulata e che va a fortificare la posizione di potere».
 

In questi giorni si parla di profughi: pensa che l’accoglienza possa essere un’occasione per la mafia?
«Lo escludo del tutto anche per la bassa appetibilità economica del settore».
 

Ultimo aggiornamento: 08:37 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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