«Io, investigatore della mente umana». Il prof del paziente che parla con accento slavo dopo l'ictus

Lunedì 20 Luglio 2020 di Edoardo Pittalis
Konstantinos Priftis
Il professore di psicologia Konstantinos Priftis, 51 anni, è nato vicino ad Atene e si è affermato a Padova dove ha guidato la ricerca sul paziente risvegliatosi da un ictus parlando con un accento straniero: «Fenomeno rarissimo, in 200 anni studiati solo 3 casi simili».


«Ma cos'è la destra e cos'è la sinistra», cantava Giorgio Gaber. «Qualche anno fa si sono allarmati all'Università Popolare di Padova quando ho detto che avrei affrontato il tema Dov'è finita la sinistra?. Tutti pensavano che parlassi del Pd, magari credevano di scoprire dove erano finiti i voti. Invece, volevo semplicemente esporre una ricerca scientifica sulla Negligenza spaziale unilaterale».

Professor Priftis cosa c'entra la sinistra con la negligenza spaziale?
«Gli anziani oggi sono tantissimi, progressivamente molte malattie sono legate all'invecchiamento, si verificano sempre più ictus, più demenze. Studiamo disturbi proprio come questa negligenza. Ci sono pazienti che in seguito a una lesione si comportano come se la parte sinistra del mondo, del proprio corpo, non esistesse più. Si vestono solo nella parte destra del corpo, si truccano nella parte destra, si radono solo da quella parte, mangiano solo quello che c'è nella parte destra del piatto. È un mondo sconosciuto ai più, ma più presente di quanto si creda».

Konstantinos Priftis, 51 anni, docente al Bo' dove dirige il Polo di Psicologia generale, è nato in Grecia a Koropi un villaggio non lontano da Atene. È arrivato a Padova nel 1990 per studiare e ci è rimasto. È sposato con Maria Grazia, hanno due figli, Aliki e Alexi: «Però i nomi li ha scelti mia moglie». Suona la chitarra, ha fatto parte di band di musica folkloristica. Ama il jazz, i libri gialli e l'archeologia: si serve di queste passioni per i suoi studi. Pochi giorni fa è finita nei tg e nelle prime pagine la sua ultima ricerca, pubblicata sulla più prestigiosa rivista internazionale del settore. È legata a un fenomeno bizzarro: un uomo appena riavutosi dall'ictus ha incominciato a parlare con un accento completamente diverso da quello usato per tutta la vita. La chiamano sindrome da accento straniero. Ed è una cosa rarissima, in duecento anni si sono studiati soltanto tre casi simili.

Professore, si parla sempre di più di ictus?
«I casi di ictus sono in aumento, solo nel Veneto si registrano diecimila nuovi casi all'anno. In Italia oltre il 5% della popolazione ha esiti da ictus, da demenza, traumi cranici, sclerosi. Si tratta di quasi 4 milioni di persone, la stragrande maggioranza ha più di 65 anni. L'aumento dei numeri è dovuto all'aumento dell'età, all'efficacia delle terapie nuove e abbiamo fortunatamente moltissimi sopravvissuti. Il tutto comporta esigenze di cure, riabilitazione, assistenza e significa anche spese alte. Collaboriamo con economisti sui costi che ricadranno sul sistema sanitario e sulle pensioni. Le stime sono spaventose, entro il 2050 queste percentuali si triplicheranno, soprattutto i casi di ictus».

Come è arrivato dalla Grecia?
«Sono nato in un piccolo villaggio fuori Atene, agricoltori e allevatori, povertà abbastanza. È un ambiente che non esiste più e non solo perché l'arrivo dell'aeroporto di Atene ha cambiato tutto. È stata un'infanzia felice con tanti amici con i quali sono sempre in contatto. Mio papà era marconista della Marina mercantile e dalle notizie che da tutto il mondo mi portava a casa, è nato il mio desiderio di conoscere, di viaggiare. Volevo studiare Archeologia ad Atene, ma c'era il numero chiuso e così per un paio di anni ho lavorato nell'ufficio acquedotti del mio paese per poter coltivare il sogno di andare via. L'occasione è arrivata con un amico di famiglia il cui figlio studiava a Bologna e questo ha risvegliato in me l'interesse storico per l'Italia e per la cultura italiana. A Padova sono arrivato per studiare Psicologia, era il luglio 1990, giusto trent'anni fa. Arrivo e so al massimo dieci parole di italiano, molta paura ma con un'arma dentro di me, un'arma psicologica: avevo detto a me stesso che non sarei più tornato in Grecia».

E la Grecia si è dimenticata di lei?
«No, si è ricordata quando meno me l'aspettavo. Mi sono laureato in Psicologia sperimentale col massimo dei voti, aiutato da amici e docenti che mi hanno adottato dal primo giorno: ho avuto dall'Italia molto di più di quello che mi ha dato il mio paese. Dopo la laurea mi sono perfezionato in Neuropsicologia per studiare gli effetti che hanno le lesioni cerebrali sulla memoria, sul linguaggio: persone che non sono più in grado di leggere, di parlare. Parallelamente ho incominciato la mia carriera clinica, al San Camillo al Lido di Venezia, dove sono rimasto fino al 2014. Prima, però, la Grecia si è ricordata di me: mi hanno chiamato per il servizio militare che ho fatto come soldato-psicologo. Si era anche aperta la porta del dottorato a Birmingham e proprio verso la conclusione il professor Carlo Umiltà, al quale devo tutto, mi informa che c'è un dottorato a Trieste, così lascio l'Inghilterra e torno a Padova».

Quando ha incominciato a insegnare?
«Nel 2004 mi hanno proposto una cattedra a Beirut in una facoltà aperta dalla New York University: era una scelta un po' particolare, non era la zona più tranquilla del mondo. Ma ho scelto di rimanere a Padova. Dieci anni dopo sono diventato professore associato al Bo' nel dipartimento di Psicologia generale, da tre anni e mezzo sono direttore del Polo di Psicologia con i vari servizi tecnici e informatici. Ho avuto un amore smisurato per l'Italia, ho avuto anche molta fortuna. Per esempio a sposare Maria Grazia, una lucana che studiava Informatica a Pisa e che era venuta per un dottorato in Psicologia. È stata ricercatrice precaria, ora insegna informatica alle superiori».

Cosa c'entra la musica? 
«Mi ha aiutato nei momenti difficili, anche a sopravvivere. Suono la chitarra, ho fatto parte di band di musica greca tradizionale; adesso mi accontento di suonare a casa. Prima avevamo un duetto a Padova di blues e musica afroamericana. Con la musica greca ho suonato nelle piazze, nelle feste, ai matrimoni, ai battesimi. Quando ero senza soldi mi ha salvato la musica. Una volta ci ha ingaggiati una coppia italo-greca che voleva sposarsi a Venezia, a San Giorgio dei Greci, e aveva prenotato per il pranzo di nozze alla Locanda Cipriani a Torcello. Ho guadagnato in due giorni abbastanza soldi per quasi un anno prima del servizio militare. Ora amo il jazz e il blues, mi affascinano John Coltrane e B.B. King».

Come concilia i libri gialli e l'archeologia col suo lavoro?
«Intanto, mi rifaccio ai classici: Raymond Chandler, Agatha Christie, Dashiell Hammett. Come Sherlock Holmes parte dal piccolo dettaglio, anche noi da un piccolo dettaglio del comportamento di un paziente risaliamo al disturbo. Non è un lavoro molto diverso da quello che fanno i grandi detective. Anche l'archeologo fa un lavoro analogo: lui nel presente osserva le rovine e cerca di risalire al passato, si chiede come erano le stanze, le strade? Per noi il presente è il paziente: sono rimaste le rovine dell'encefalo, e sulla base dei suoi comportamenti dobbiamo capire come era prima delle rovine».

Sta cambiando anche la nostra testa?
«Sono preoccupato per come si trasforma la nostra testa per l'uso esagerato di computer, cellulare, tablet Forse elaboriamo più informazioni, ma in maniera meno approfondita. Facciamo fatica a portare avanti ciò che richiede più impegno, per esempio impieghiamo di più a leggere un libro. Non scriviamo più a mano, non riflettiamo sui percorsi perché abbiamo il navigatore. E se un giorno in uno scenario apocalittico perdessimo tutto? Dobbiamo dedicare una piccola parte del giorno a scrivere almeno una pagina di diario, a fare un percorso senza guida elettronica. La grande sfida è capire come la nostra testa cambia o meno in funzione dell'uso delle nuove tecnologie».
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