Benito Selmin, da semplice addetto a titolare della "fabbrica dei sacchetti"

Lunedì 28 Ottobre 2019 di Edoardo Pittalis
Benito Selmin, da semplice addetto a titolare della "fabbrica dei sacchetti"
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PONTE SAN NICOLO' (PADOVA) - A Ponte San Nicolò da un secolo fanno imballaggi per qualunque prodotto, non c'è niente che non possa essere messo dentro una confezione adatta. Una volta lo chiamavano Sacchettificio, oggi è Packaging perché in inglese pare suoni bene e si venda meglio. Il Sacchettificio Nazionale Corazza c'è dal 1925, il marchio è quello di allora: due elefantini che saggiano la resistenza del sacco. Caratteri Anni Venti, disegno che sembra preso da un manifesto del cinema muto, stile kolossal alla Cabiria.  Una volta era dietro la chiesa, dove passava la tramvia che portava operaie e clienti. Oggi si estende su 55 mila metri quadrati, nella zona industriale di un paese in forte crescita demografica, sulla strada per il Piovese, tra le acque del Bacchiglione. A metà degli anni '80 la famiglia Corazza ha passato la mano a Benito Selmin, 83 anni, che in fabbrica c'era dal giorno dopo il congedo militare: da addetto al colore dei sacchi a direttore generale. Ora al vertice c'è Alessandro Selmin, 47 anni, padovano, sposato, quattro figli. 
 
È l'azienda privata del settore più importante d'Italia per sacchi industriali in carta; tra le prime in Europa: 200 dipendenti, 65 milioni di euro di fatturato, il 70% della produzione esportato in 38 paesi. Producono 125 milioni di sacchi di carta, 42 milioni di sacchi di plastica (45% del fatturato). Ha appena investito 25 milioni di euro nella costruzione del sacchettificio robotizzato, con un ponte di collegamento automatizzato tra polo logistico e polo industriale. Macchine così ce ne sono cinque al mondo, alta tecnologia applicata a prodotti a basso costo. «Contiamo su un incremento del 30 per cento della produzione e prevediamo un fatturato di 100 milioni in pochi anni», dice Alessandro Selmin. 
C'è subito il grande problema della plastica?
«Questa pressione ha un risvolto positivo: dà una bella strigliata a governanti e opinione pubblica per spingere a soluzioni di packaging e verso stili di vita nuovi e più sostenibili. Ha un risvolto negativo perché la plastica è diventata il diavolo e questo crea confusione. Se pensiamo a sacchetti, forchette, bicchieri, bottiglie, all'usa e getta allora siamo tutti d'accordo, si percorre la strada di eliminare l'usa e getta. Ma il problema plastica persiste: c'è un abuso, ma non ci si interroga sulle cause. Occorrono leggi giuste e adeguate. Noi facciamo altro, lavoriamo per i cibi di cani e gatti: il sacchetto deve proteggere un prodotto che deve durare 18 mesi ed è spedito in giro per il mondo e non deve emanare odore. Tutte queste capacità, come trattenere odore e ossigeno, sono determinate da proprietà tecniche. Dopo tre anni di ricerca abbiamo appena messo in circolazione un prodotto certificato, un materiale nuovo che protegge, è bello ed è anche riciclabile. La spinta ci ha portato alla ricerca. Il problema non è tutta la plastica».
Allora è il momento della carta?
«Ha meno problemi, anzi vive di trend positivo dovuto proprio all'alone negativo della plastica. La cosa più semplice da immaginare è il sacco della farina: tutti i mulini riempiono sacchetti da 25 chili che poi vengono smistati nei forni. Tantissimi prodotti viaggiano nella stessa maniera, anche quelli chimici. Il settore della carta attrae oggi, può esserci uno scambio tra carta e plastica per imballaggi. Anni fa era facile gestire un sacchettificio vendendo sacchi per cemento, si chiedevano milioni di sacchi per un settore in sviluppo enorme, poi il mercato immobiliare è crollato e perfino i cementifici hanno chiuso. Ci fossimo limitati a quel prodotto sarebbe stato il caos: per entrare nei mercati nuovi come il pet-food, dovevi essere pronto a investire in tecnologia, cosa che abbiamo fatto.
Quando è entrato in azienda?
«Nell'estate del 1999, appena laureato in Economia, ci sono voluti vent'anni per diventare direttore generale e, nel frattempo, ho fatto esperienza settore per settore. Non ho subito pressioni, dopo l'università pensavo più a una grande azienda che a quella piccola di famiglia. Invece, nella realtà quando sono entrato ho capito che esisteva un mondo che l'università non esplora; i giovani escono dagli studi con tante nuvole in testa e tanta nebbia. Fortunatamente, viviamo un periodo di crescita incredibile, cerchiamo personale e non lo troviamo. Per giorni abbiamo pubblicato sul Gazzettino un annuncio strutturato per chiedere curriculum e ne abbiamo ricevuti appena tre! Solo negli ultimi sei mesi abbiamo fatto venti nuove assunzioni, ma altrettanti hanno rifiutato, anche giovani del posto: colloqui fatti, visita medica fatta, ma dopo tre giorni hanno alzato bandiera bianca. È imbarazzante, non abbiamo preclusioni, basta che sappiano l'italiano e siano in regola; abbiamo tre turni di lavoro per coprire le 24 ore. Ci occorrono almeno una dozzina di nuovi operai. Li formiamo noi, chiediamo dove è possibile un'istruzione tecnica, a volte basta anche meno, occorre però la volontà e questo è un grande problema».
Alessandro chiama il padre Cavaliere, ed è il Cavalier Benito a raccontare la storia di un'azienda che sta per compiere 100 anni. Quando è nato il Sacchettificio Nazionale Giorgio Corazza?
«Nel 1925 e produceva sacchetti in cotone bianco per differenziarsi dagli altri sacchettifici. Destinati al riso, alla farine, ai generi alimentari, allora era vietato l'uso della carta per imballare gli alimenti. Si cuciva a mano sacchetto per sacchetto: 130 donne si alternavano a una cinquantina di
macchine per cucire Singer. Poi il tessuto veniva stampato in litografia, esemplare per esemplare. Dopo la seconda guerra c'è stato un momento di crisi, fino a quando è anche incominciata la produzione con la carta a quel punto consentita. Il passaggio enorme in Europa è stato negli anni '60, quando dalla Svezia sono arrivati gli imballi in carta ed erano rotoli, non più pezzi e questa era una rivoluzione: non c'era più bisogno di confezionare i sacchi uno per uno. In tutta Italia oggi i sacchettifici rimasti sono dieci, la metà nel Veneto».
Quando è entrato nella vita del Sacchettificio?
«Era il primo giorno di marzo del 1960, appena congedato. Sono entrato con compiti di dare qualità alla stampa dei prodotti usati: siamo stati i primi a produrre sacchi industriali a quattro colori e poco dopo a sei colori. Una vocazione che ci è rimasta, quest'anno abbiamo vinto tre primi premi nazionali come migliori stampatori in flexografia sia su carta sia su plastica. Dopo la morte del fondatore, la famiglia ha preferito cedere a un gruppo di investitori tra i quali alcuni dipendenti. C'erano un centinaio di operai e ancora una forte molta manualità».
Ed è stato il momento dei Selmin che hanno conservato il vecchio nome
«Ho avuto la fiducia completa dei soci e oggi siamo lo stabilimento in Italia col fatturato maggiore, il solo che si propone per prodotti speciali. Ho voluto conservare il nome perché l'azienda aveva una tradizione e una storia. C'era l'urgenza di nuovi spazi, la fabbrica era ormai prigioniera del centro abitato, il Comune di San Nicolò lungimirante ha aperto una zona artigianale, sostanzialmente per spostare il Sacchettificio Corazza. Abbiamo respinto la tentazione di delocalizzare che comporta rischi di essere deboli sul nuovo e indebolire il vecchio. Per le multinazionali è semplice, aprono e chiudono. Un'azienda privata deve fare formazione sul posto e spostare nel frattempo le risorse buone. Meglio investire in tecnologia che ci proietta nel futuro».
Edoardo Pittalis
Ultimo aggiornamento: 29 Ottobre, 09:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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