L'ingegnere Manzoni: dal primo computer Ibm alla storia dei Cimbri

Lunedì 8 Maggio 2023 di Edoardo Pittalis
L'ingegnere elettronico Francesco Manzoni

L'ingegnere elettronico Francesco Manzoni, 80 anni, è uno di quelli che a Padova ha fatto la storia dell'informatica. Appena laureato è andato in Florida dove ha partecipato alla creazione del primo computer della Ibm costruendo materialmente un pezzo. Arrivato alla pensione, si è messo a studiare i Cimbri, la loro storia, la loro lingua, dedicando loro una serie di libri. È tra coloro che conoscono meglio il segreto della popolazione cimbra dell'Altopiano e per non perderla di vista si divide tra Padova e Asiago dove è nata la famiglia della moglie Rosita, i Paganin.

Alla sua maniera l'ingegnere dei Cimbri ha messo i Cimbri nel computer. I Manzoni sono padovani da molte generazioni. Il loro avo faceva il caffettiere e arrivò a fine Settecento come titolare del Caffè alla Posta Austriaca aperto proprio di fronte al Caffè Pedrocchi, il concorrente diretto. Ha vinto il Pedrocchi e dove c'era il Caffè della Posta oggi c'è la sede della Cassa di Risparmio.


Ma chi erano questi Manzoni padovani?
«Era una famiglia piuttosto vivace e artistica: mio bisnonno Giacomo era un pittore affermato nella Padova dell'Ottocento, ha affrescato chiese in città e nel Veneto. Per non combattere con gli Austriaci è scappato e si è arruolato con i Bersaglieri del Regno di Sardegna e ha fatto tutta la campagna del 1860 andando incontro ai Mille. Dopo l'Unità ha ripreso la sua attività di pittore e di presidente del Circolo Filarmonico. Mio padre Guelfo aveva un negozio di porcellane in piazza delle Erbe, adesso c'è una rivendita di telefonini. Io sono arrivato sotto le bombe e la Padova dei miei ricordi è incominciata dopo la guerra, quando si poteva correre ancora nelle strade, la compagna di giochi era mia sorella. Ero anche un discreto portiere tra i pali della squadra della parrocchia».


Come mai la passione per l'elettronica?
«Mi piaceva conoscere il segreto di ogni cosa che trovavo, non c'era oggetto in casa che non avessi smontato. Sono stato tra i primissimi laureati in ingegneria elettronica al Bo, tra quelli che hanno aperto la storia dell'informatica in Italia.

Dopo il servizio militare come ufficiale dell'Aeronautica, sono andato negli Stati Uniti con l'Ibm per partecipare alla realizzazione del primo computer

A Padova ho diretto il Cerved, i servizi informatici del Comune e il centro di calcolo dell'Università. Col tempo è emersa un'altra passione, quella per la paleografia: volevo scoprire il mondo medievale, imparare a leggere i documenti degli archivi e delle biblioteche».


Ma i Cimbri quando sono entrati nella sua vita?
«Per fare ricerca ho incominciato dalla storia della famiglia di mia moglie che discende dai Cimbri. Era una storia che passava per Asiago e portava lontano e seguendola incrociava le vicende dell'Altopiano e della sua gente. Spinto sempre dalla curiosità, ho scoperto la vicenda di due ragazze che a fine Ottocento sono state mandate a studiare al collegio Vanzo di Padova e poi, seguendo la vocazione, sono diventate suore comboniane in Africa: Vittoria, che era una specie di Indiana Jones, è diventata superiore della sede di Khartoum in Sudan, dove raccoglievano e insegnavano un mestiere a ragazzine e ragazzini strappati agli schiavisti. Allo scoppio della guerra anglo-egiziana il vescovo di Alessandria d'Egitto ordinò di scappare e lei mise in piedi una carovana di 90 dromedari che avrebbe percorso centinaia di chilometri di deserto in due settimane per risalire il Nilo. Salvò tutti i bambini. È sepolta in Africa. La sorella Giovanna andò in India a curare i lebbrosi, una specie di piccola Madre Teresa, e morì per le fatiche. Alle due sorelle Asiago ha da poco intitolato una piazzetta».


Due suore, sia pure avventurose, bastano per imparare il cimbro?
«No, è che seguendo Asiago ho incominciato ad appassionarmi alla storia dei Cimbri. Mancava qualcosa che raccontasse cosa pensavano i media dell'epoca della gente dell'Altopiano, di quel popolo che parlava una strana lingua. È nato così il mio primo libro, 400 pagine, stampato dalla Cleup: "Asiago e l'Altopiano dei Sette Comuni, la gente, l'ambiente, le condizioni di vita". Riprende gli autori dal Cinquecento ai giorni nostri, compreso Giulio Cesare Abba che nella rivista del Touring del 1908 si sofferma su quelli che chiama lembi di patria e parla dei cimbri come gente che lavora vincendo una natura proterva, desidera poco e gli pare d'aver tutto».


Così ha deciso di ricostruire le origini della gente dell'Altopiano?
«Naturalmente non si può prescindere dall'opera fondamentale di Johann Andreas Schmeller sulla scoperta del piccolo popolo dei Cimbri. Era figlio di un contadino, aveva dovuto lasciare la scuola per il lavoro, si era arruolato come mercenario del re di Spagna contro Napoleone. Rientrato in Baviera aveva incominciato a interessarsi di filologia e dei dialetti, era tanto bravo da riuscire a salire in cattedra senza titoli. È stato il primo a studiare seriamente questo popolo che in una zona tra Verona e Vicenza parlava un tedesco antico del 1100, che aveva tagliato i legami con la patria conservando la lingua che si era cristallizzata».


Ma come è nata la definizione di Cimbro?
«La usarono per la prima volta gli umanisti vicentini del Trecento: scrivono cimbri e cimbria. Nel territorio c'erano molti che usavano questa lingua strana e rispondevano "sono cimbro e parlo tedesco". Dicevano "zimber", che in tedesco è il boscaiolo, e diventava facilmente cimbro termine col quale gli studiosi indicavano la popolazione. Si trattava di dotti che parlavano un latino ecclesiastico, li confondevano con i Cimbri della storia di Roma: io lo chiamo il grande abbaglio, ma la loro definizione si è affermata».


Ma chi erano veramente e da dove venivano?
«Arrivarono a ondate, tra il 1050 e il 1150. Arrivarono perché qui c'era mancanza di forza lavoro e c'erano risorse da sfruttare: boschi, pascoli di monasteri e feudatari che avevano bisogno di braccia per coltivare la terra e tagliare legna. I Cimbri parlano una lingua medievale, hanno tradizioni particolari che sopravvivono ancora oggi con un patrimonio di canti e composizioni devozionali. Hanno un carattere fiero, orgoglioso e ruvido. Tra di loro c'è una fortissima solidarietà, hanno un senso della proprietà collettiva di tradizione germanica. Eredi di una democrazia partecipativa, basta vedere gli statuti dei Sette Comuni: con le altre autorità non facevano atti di sottomissione, ma patti. Tutto questo comportava anche resistenza al cambiamento, tipico di una società contadina con poche risorse. La patata sull'Altopiano arriva con 200 anni di ritardo perché c'è la diffidenza per il "foresto" di ogni genere. È stata la Grande Guerra a rompere l'isolamento».


Ma quanti parlano oggi la lingua cimbra?
«Sono rimasti in pochi oggi a parlare il cimbro, a Roana, a Rotzo, a Luserna che è la parte più solida, lo parlano anche in Lessinia; ma sull'Altopiano oggi sono poche decine. C'è un movimento per proteggere e conservare la lingua, è appena uscita una grammatica di Luca Palmieri dell'università di Padova che standardizza l'ortografia e mette ordine. Non mancano nella letteratura cimbra anche esempi non lontani di buona poesia, studiando la storia della famiglia di mia moglie sono arrivato a Valentino Paganin un prete e poeta tra genio e follia, vissuto nella prima metà dell'Ottocento. Ritorna da monsignore nella sua Asiago per seguire la sua vena poetica, frequenta osterie, viene isolato dalla famiglia e ricoverato in un istituto di correzione per preti nell'isola di San Clemente nella laguna di Venezia. È disobbediente come sacerdote e come suddito austriaco, continua a scrivere poesie religiose in cimbro, traduce lo Stabat Mater anche in tedesco. Morirà in manicomio».

Ultimo aggiornamento: 9 Maggio, 10:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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