Erto, tra case e pietre
una vera Passione laica

Venerdì 18 Aprile 2014 di Ferdinando Garavello
Erto, tra case e pietre una vera Passione laica
Il rullo dei tamburi invade le vie fra le vecchie case di Erto, in Valcellina, per metà abbandonate e disabitate. Lo senti rotolare sulle pietre e nella pancia prima ancora di vedere i figuranti, che finalmente emergono come coloratissimi fantasmi dal buio dei secoli. E non potrebbe essere altrimenti, perché la rappresentazione del Venerdì santo di Erto affonda le sue radici nel flagello seicentesco della peste. Loro – gli ertani – non fanno tanti giri di parole e la chiamano semplicemente “i Cagnudei”, una probabile derivazione da "giudei", anche se qualcuno propone altri significati.

Il fatto che negli ultimi quattro secoli e mezzo la tradizione sia stata interrotta solamente per una manciata di anni - dopo la tragedia del Vajont - può però dare la misura di quanto importante sia questo rito per gli abitanti della valle. Sotto le parrucche e le vesti ci sono proprio tutti. C'è il presidente della Pro loco che impersona San Pietro, il sindaco che fa Barabba e il capo del comitato organizzatore che guida il Sinedrio con il piglio di un Caifa vendicativo e inviperito. Da Capodanno in poi nel borgo è tutto un fiorire di barbe dure come le mughe della val Zemola, e chi non ne ha se ne appiccica una finta.

Quella di Erto, oltre a essere una delle iniziative più antiche, è anche l'unica Passione “laica”. La processione, nata come voto di ringraziamento per lo scampato pericolo di una delle tante pestilenze del Seicento, è stata letteralmente buttata fuori dalla chiesa poco più di mezzo secolo fa. Troppe licenze poetiche, troppi personaggi sopra le righe. Troppo di tutto, davvero. Tanto che fra le due guerre il parroco del paese scriveva sconfortato al vescovo e definiva "barbari" i comportamenti del suo gregge durante i Cagnudei. La frattura con la parrocchia non ha impaurito gli ertani ed è servita invece per disciplinare i partecipanti alla rappresentazione, che ora vive di un copione rodato e oliato. Questo è il primo motivo per arrampicarsi oltre la diga e l'immensa frana del Toc per assistere alla Passione. Il secondo è che questa è proprio una "passione". La fatica del Cristo e dei ladroni che portano le croci è vera, i brividi di freddo dei figuranti che camminano a piedi nudi sui sassi gelati sono veri e pare reale anche la crocefissione finale. Per non parlare della penosa salita sul Golgota reso scivoloso dall'umidità e dal freddo, o del suicidio di Giuda. Restare indifferenti di fronte a questo spettacolo antico è davvero difficile, e conoscere le vicende di una valle che era un paradiso ed è stata trasformata dall'uomo in un inferno di fango e morte non aiuta di certo.

Non è rimasta indifferente neppure Penelope Bortoluzzi, giovane regista veneziana-parigina che ha realizzato di recente il documentario “La Passione di Erto” per parlare del legame fra la resistenza ertana del post-Vajont e la processione del Venerdì santo. «La rappresentazione mi ha stregato. E'un elemento imprescindibile dell'identità del paese – spiega - una tradizione che simboleggia lo spirito indipendente degli ertani, la loro ostinata volontà di decidere del proprio destino. Non capita tutti i giorni di vedere un paese trasfigurato da un magnifico teatro popolare quando la croce si solleva nel silenzio, quel monte diventa veramente il Golgota e ogni attore porta nei suoi gesti e nelle sue parole tutti coloro che hanno interpretato quel ruolo prima di lui». Da questo punto di vista la Passione è il simbolo più tangibile della tradizione locale e dell'unità culturale di un paese fieramente aggrappato alla propria storia: «Una tradizione - ricorda la regista, che ha raccolto un enorme volume di documenti per scrivere il film - che, dopo il disastro del Vajont, è diventata un vero e proprio strumento di resistenza contro le autorità politiche dell'epoca, che volevano svuotare per sempre la valle».

© riproduzione riservata
Ultimo aggiornamento: 11:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA