Dalla Germania agli Usa
la tragedia della famiglia

Sabato 31 Agosto 2013 di Adriano De Grandis
La diva assente Lindsay Lohan
VENEZIA - Famiglie, io vi odio: urlava pi di un secolo fa Andr Gide nei suoi "Nutrimenti terrestri". Ecco una frase che ben riassume la giornata di ieri del concorso, dove dalla Germania al sud degli Stati Uniti, le famiglie sono il nucleo di violenze inaudite.



Con "Joe", David Gordon Green ci porta dentro il più mefitico Sud degli Usa (siamo nel Texas), con una storia che inizia tra i binari abbandonati, dove un giovane ragazzo (il bravissimo quasi 17enne Tye Sheridan, in lizza per la "Mastroianni") rimprovera il padre nullafacente e alcolizzato, che gli risponde picchiandolo. In un clima di angoscia terribile, codificata nel western, un adulto sbandato, con diversi problemi, ma ancorato a un privato codice etico (un Cage più convincente del solito), si prende cura del ragazzo, dandogli un lavoro e diventando, nel tempo, una specie di padre adottivo.



Tratto dal romanzo di Larry Brown, partendo e chiudendo il film con una metafora "verde" (gli alberi avvelenati prima di abbatterli prima, poi le nuove piante al loro posto), Gordon Green delinea con robusta e vibrante adesione il percorso di formazione del ragazzo, che pur toccando passaggi canonici (a parte l’iniziale "rapporto a distanza" tra Joe e Gary, come fosse in qualche modo già destinato), riesce a descrivere con forza un ambiente degradato, rapporti violenti e il tentativo di uscire da tale pantano: il ragazzo, che vive con una madre altrettanto sciroccata e una sorella che ha deciso di restare muta, dimostra una caparbietà e una volontà sorprendenti, una voglia di riscatto morale ed economico, che culminano in un finale che sembra ricordare "Gran Torino".



Assai faticoso, come da pronostico, il secondo film in gara: "Die Frau des Polizisten" ("La moglie del poliziotto") del tedesco Philip Gröning, a 8 anni dal suo "Il grande silenzio", girato in un monastero delle Alpi francesi. Nemmeno in questo film si parla molto, ma la situazione si fa perfino più ostica, perché Gröning frantuma il film in 59 capitoli, riordinati a caso (pur in una progressione drammatica) e ostinatamente aperti e chiusi dalla scritta: inizio capitolo n, fine capitolo n. In quasi 3 ore di estenuante visione, Gröning racconta (si fa per dire: la stragrande maggioranza di capitoli riassume attimi "perdibili" della storia) la vicenda tragica di una famiglia di pazzi, dove lui ha l’aplomb del nazi, lei si fa picchiare ed è masochista e anche la bambina denuncia inevitabili momenti di squilibrio.



È chiaro che il gioco teorico a metà strada è già brillantemente scoperto, come il finale drammatico, ma il fatto di ripartire da zero ogni 2-3 minuti, cambiando sfondo, tiene alta la vigilanza dello spettatore. Ne esce un film a suo modo affascinante e incredibilmente mai noioso, (con un trio di interpreti notevoli, bimba compresa), che all’inizio sembra ricordare l’ultimo Malick e alla fine la crudeltà di Haneke, con un ulteriore personaggio indecifrabile (il poliziotto da vecchio?, suo padre come suggerirebbe l’arredamento?, un’allegoria?) e l’ultima immagine che lascia ulteriore spazio alle interpretazioni.



"The canyons", fuori concorso, conferma le recenti debolezze di Paul Schrader. Scritto da Bret Easton Ellis è l’ambizioso tentativo, poco riuscito, di una riflessione sul cinema. Funziona di più la vicenda di alcune giovani coppie che mettono in scena menzogne e tradimenti, in uno scenario falsamene scintillante e perfetto. Per nulla scandaloso sul piano erotico, con Lindsay Lohan la più credibile e un imbambolato James Deen, pornoattore di fama, che dà il meglio quando espone (in una sola scena) la sua mercanzia, dove peraltro non viene fatta "recitare".
Ultimo aggiornamento: 10:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA