Sulla sedia di Mazzacurati
il segreto della felicità

Venerdì 25 Aprile 2014 di Adriano De Grandis
Carlo Mazzacurati
Non è facile parlare di un film che esce postumo. Il pensiero corre inesorabilmente al regista che non c'è più e questo può in qualche modo condizionare il pensiero, oltre a non rendere possibile un eventuale contraddittorio.

Lo è di più se questo regista "mancante" è Carlo Mazzacurati, che è una di quelle persone, prima che regista, sulle quali si è sempre portati, per la sua innata disponibilità, a tergiversare con le dita prima di scrivere qualche nota dissonante.

A maggior ragione se attorno alla sua precoce e dolorosa morte c'è stato un giusto convergere di sentimenti di partecipazione rara e sincera, segno che l'uomo ha seminato rapporti e comportamenti non comuni. E quindi il rischio è quello di passare per cinici: e sarebbe un errore pensarlo.

Tuttavia è difficile sostenere, come altri hanno invece fatto, che "La sedia della felicità", suo purtroppo ultimo film, sia anche il suo migliore o quantomeno che questa visione bonaria degli accadimenti - pur nel loro straniamento a tratti vistosamente surreale, e fatta la tara alle situazioni divertenti - sia l'antidoto appropriato alla rappresentazione di un mondo altrimenti cupo e drammatico, come ci ricorda per esempio il coevo "Piccola patria", che sembra il suo puntuale controcanto di un Nordest, dove comunque i "schei" (anche qui) hanno la funzione decisiva nella ricerca della felicità.

È di certo il suo film testamentario, non tanto perché riassume i temi a lui più cari, quanto per la partecipazione, anche in semplici cameo (Orlando, Bentivoglio), di tutti i suoi attori di sempre, come fossero convenuti per non dimenticarsi dell'amico di tanti set (da Citran ad Albanese, da Balasso a Battiston, Artuso...).

Lo spunto è abbastanza semplice: l'estetista Bruna (Ragonese) riceve in punto di morte dalla detenuta Katia Ricciarelli la dritta su un tesoro nascosto in una sedia. Da qui parte una forsennata ricerca, che coinvolge anche il tatuatore Dino (Mastandrea): i due formano così una coppia di sprovveduti povericristi che sognano di diventare ricchi, prontamente tallonati da un ambiguo prete (Battiston), in una caccia al tesoro che si fa via via sempre più rocambolesca.

Se l'incipit sembra quasi ricordare, per certi aspetti, "Burn after reading" dei Coen (anche lì una coppia maldestra e improvvisata venuta a conoscenza di un segreto cerca di ottenere molto denaro, ma rischia quasi di scatenare una guerra...), è chiaro che Mazzacurati non ha lo sguardo beffardo dei fratelli e quindi mette insieme una serie crescente di scenette grottesche e bizzarre che strappano sorrisi abbastanza innocui, scivolando anche su macchiettismi non particolarmente brillanti, come quelli sui vari immigrati più che sull'impiegata sadomaso.

Certo l'insieme, che parte in realtà da una novella russa, lascia un retrogusto un po' forzato di ottimismo che si capisce e si accetta, vista la situazione in cui il film è stato girato, ma il percorso di Mazzacurati attento narratore di un Nordest così contradditorio partito dal noir plumbeo di "Notte italiana" e proseguito tra giuste distanze, tori e lingue del santo (forse il film più in sintonia a questo) va a chiudersi con una visione assolutoria, nonostante una nuvola di malinconica disperazione che accompagna i personaggi e l'impasse di una terra non eldorado, con una crisi economica e di lavoro comunque anche qui evidente.

La commedia umana di Mazzacurati si nutre in definitiva di tocchi leggiadri (per un "addio" scanzonato) in una vita "provinciale" che forse scava poco dentro la realtà precaria, preferendo restare a un'ulteriore "giusta distanza" dove il sorriso si stempera in un soffio recuperato di presunta, possibile felicità.

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Ultimo aggiornamento: 10:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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