​Mollicone, le impronte sul nastro non sono di Tonino Cianfarani. Resta il mistero

L'uomo, deceduto nel 2020, nel 2012 aveva ucciso a Fontechiari e murato in cantina Samanta Fava

Sabato 11 Marzo 2023 di Vincenzo Caramadre
La vittima Serena Mollicone e il corpo ritrovato a Fonte Cupa

I frammenti di impronte digitali trovati sotto il nastro utilizzato per bloccare il corpo di Serena Mollicone restano un mistero. Un mistero infinito che non è stato svelato nel corso dei vent’anni di indagini e nemmeno con l’ultimo accertamento eseguito dalla procura di Cassino dopo l’assoluzione dei cinque imputati per l’assassino della 18enne di Arce. I carabinieri del Ris di Roma nelle scorse settimane hanno comparato, a seguiti di un esposto arrivato in procura, le impronte di Tonino Cianfarani (l’uomo condannato in via definita per l’omicidio di Samanta Fava, avvenuto nel 2012, e deceduto nel 2020) con quattro frammenti di impronte digitali ignote: l’esito è stato negativo. 
 

LA RICOSTRUZIONE 

Ma per avere il quadro completo bisogna fare un passo indietro. A ottobre scorso il criminologo Carmelo Lavorino (responsabile e portavoce del pool della difesa Mottola), invia un esposto in procura per chiedere nuove indagini, anche di tipo comparative tra le impronte digitali e biologiche dell’assassino di Samanta Fava con quelle del soggetto ignoto che ha avvolto i nastri che legavano il corpo della 18enne.

L’attenzione è stata focalizzata sulle tracce denominate “15A” e “18A” trovate nella parte adesiva del nastro che l’assassino della 18enne ha “depositato” nel momento in cui ha immobilizzato il corpo, il primo giugno 2001, prima di abbandonarlo nel boschetto di Fonte Cupa. Ma non solo c’è stata anche l’analisi dell’impronta digitale “6A” isolata sulla copertina della tesina che Serena il giorno della scomparsa aveva con sé; infine, il frammento d’impronta “7C” trovata sul cassone metallico posizionato davanti al cadavere della ragazza nel luogo di ritrovamento. La procura ha così acquisito i cartellini con le impronte di Cianfarani, prelevate dagli agenti del commissariato di Sora nell’indagine che fu coordinata dal pubblico ministero Alfredo Mattei, ed ha dato incarico al Ris di Roma (sezione Impronte) per le operazioni. 
 

Il sistema di comparazione è stato triplice, vale a dire; diretto, con il cosiddetto PrintQuest e tramite la banca dati nazionale. Tutti e tre gli accertamenti hanno dato esito negativo. Le quattro tracce non appartengono a Tonino Cianfarani e a nessun altro soggetto “schedato” dalle forze di polizia. La procura ha chiesto l’archiviazione dell’esposto. L’avvocato Ezio Tatangelo che ha difeso Cianfarani nel processo e ora assiste la famiglia ha ritenuto, per ora, di non commentare il nuovo accertamento. 
 

IL PRECEDENTE 

Un primo accertamento, che ha dato sempre esito negativo, con un altro soggetto condannato in via definitiva c’era già stato da parte della procura nel 2015. «La procura a suo tempo, giustamente, comparò le impronte dell’assassino della professoressa Palleschi con quelle dell’assassino di Serena su iniziativa dell’allora procuratore capo Mario Mercone, così come ha comparato le impronte digitali di almeno duecento persone, questa è serietà investigativa: esplorare tutte le piste senza pregiudizi», ha dichiarato il professor Carmelo Lavorino portavoce del pool di difesa della famiglia Mottola. Poi ha aggiunto: «Finalmente nel dicembre del 2022 la procura ha acconsentito alla nostra richiesta, comunicandoci che le impronte sul cartellino segnaletico dell’assassino di Samantha Fava non sarebbero quelle dell’assassino di Serena. Però e purtroppo la procura ha ritenuto di non procedere né con le indagini biologiche né con altri indagini investigative verso l’assassino di Samantha Fava e di altri soggetti interessanti e su piste da noi indicate». 
 

«Indicheremo alla magistratura tutte le indagini investigative e tutto gli accertamenti tecnici che riteniamo e riterremo utili alla soluzione del caso ed all’individuazione della/delle persona/persone che ha/hanno fatto del male alla povera Serena sino a causarne la morte, per poi trasportarle sul luogo del rinvenimento, la radura di Fontecupa.

Ci auguriamo - conclude Lavorino - che le parti civili apprezzino le nostre attività e le nostre indicazioni, anche perché, se non ci fossimo stati noi, il povero innocente Carmine Belli sarebbe stato ingiustamente condannato così chiudendo con una falsa cortina il caso, e idem per il processo contro i Mottola e gli altri due imputa». 

Ultimo aggiornamento: 6 Aprile, 19:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA