Un uomo distrutto, un eroe caduto.
Una sentenza che gli esperti di diritto definiranno perlomeno «clemente», ma che sembra suggerita dalla pietà: per la disabilità dell’eroe sportivo che ha autodistrutto, come uno specchio fatto a pezzi, l’immagine edificante e positiva che gli riconosceva il mondo; suggerita dalla pietà su tutto, come se a concederla fosse la stessa vittima, Reeva Steenkamp, fotomodella sudafricana di 29 anni, che di Pistorius, allora di tre anni più giovane, era la fidanzata. Lei bellissima, ma intatta dai pregiudizi, che stava accanto a quell’uomo nato senza i peroni e i piedi completamente malformati, che costrinsero i medici ad amputargli le gambe quando aveva appena undici mesi di vita. Un uomo diventato celebre non perché non si fosse arreso (gli esempi di uomini coraggiosi nello sport sono tanto sorprendenti quanto numerosi) ma perché questa sua sfida l’ha portata all’estrema conseguenza dell’integrazione, e cioè gareggiare da disabile nelle gare dei cosiddetti normodotati.
E così - dopo polemiche di mesi sul presunto vantaggio che le protesi, che gli sostituivano parte delle gambe, gli avrebbero dato - fu ammesso alle competizioni ufficiali e gareggiò addirittura alle Olimpiadi, a Londra nel 2012, nei 400 metri piani, con quelle protesi da fantascienza che si concludeva con delle lame ricurve che sembrano sci. In batteria corse addirittura con il suo miglior tempo di sempre (45’’44), raggiunse la semifinale e lì il suo sogno si fermò, realizzando lo stesso un’impresa che ne ha consacrato la celebrità internazionale. Appena pochi mesi dopo, la tragedia. È la notte che segue il 14 febbraio 2013, nella villa di Pretoria del campione. Pistorius spara quattro colpi di pistola al di là verso la porta chiusa del bagno. In bagno c’è Seeva, che rimane uccisa. Lui ammette subito di aver sparato, ma parla della paura per la presenza di un’intruso (un ladro in casa), un’ombra che lo ha ingannato, che non pensava che in bagno ci fosse Seeva.
La paura la descrive nell’aula del tribunale, camminando senza protesi, nel passo incerto e faticoso sui moncherini, perché era così in quel momento, turbato – è la sua versione - da un rumore, da un presunto pericolo. Se questa versione racconta veramente quanto è successo, non si sa ed è facile dubitare. Per la bellezza di Seeva, per una gelosia possibile, per un litigio che si sospetta abbia potuto armare l’ira e non la paura. «Sono convinta che una lunga pena detentiva non servirebbe ai fini della giustizia» ha detto ieri la giudice, Thookile Masipa, donna di colore - circostanza, questa, che ha un valore: perché inevitabilmente il fatto che Pistorius sia bianco avrebbe fatto pensare a un motivo più d’indulgenza.
Solo sei anni, quando il codice penale in Sudafrica prevede per il reato riconosciuto come omicidio volontario una pena minima di 15 anni. Ma il diritto in Sudafrica ha le sue particolarità rispetto a quanto siamo abituati: il giudice d’appello è lo stesso del primo grado, e il codice assegna al magistrato un margine di discrezionalità tale che è poi lui a decidere il peso della sentenza. Che sarà lieve, per Oscar: tre anni in carcere, tre anni agli arresti domiciliari. La difesa ha già detto che non farà ricorso; Pistorius è sembrato sollevato per questa conclusione, anche se è un’impressione di chi lo ha visto in tribunale, non un commento del campione. Cosa poi il suo cuore custodisca non è solo un segreto, ma forse la vera sentenza per aver ucciso chi aveva scelto di stargli al fianco.