È stata una lunga trattativa. Alla fine il governo ha deciso: la tassa sugli extraprofitti delle banche deve essere rivista.
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COSA CAMBIA
L’ultima mediazione ieri sera ha modificato il travagliato decreto di agosto sugli Extraprofitti: nell’emendamento del governo sarebbe stato scolpito che il cap del pagamento del 40% di tasse sui maggiori guadagni 2022 e 2023 rispetto al 2021, determinato dal margine di interesse avrà come tetto massimo una soglia più alta (0,26%) rispetto alle prime ipotesi contenute negli emendamenti di Forza Italia (0,15–0,18%) dell’attivo ponderato, che è la voce del bilancio non comprendente i titoli di Stato. Quindi dalle negoziazioni di btp e bot le banche non pagheranno tasse scongiurando il rischio di una fuga pericolosa dal debito pubblico, ma è stato alzato il tetto per garantire il mantenimento del gettito previsto di 2,7 miliardi, come preteso dalla premier. Il testo però dovrebbe prevedere un’opzione alternativa al pagamento tout court che assicurerebbe il rafforzamento patrimoniale delle banche: l’equivalente della tassa del 40% potrà essere iscritta a patrimonio, comportando di fatto un rafforzamento patrimoniale (differenza tra attività e passività) degli istituti, equiparabile a un vero e proprio aumento di capitale. Significa che questa ricchezza resterà dentro le banche, rafforzandole appunto, non verrebbe distribuita come utile ai soci e non impatterebbe sul conto economico. E non verrebbe distribuita però nemmeno allo Stato ma il governo otterrebbe un grosso vantaggio: puntellare il sistema italiano e far sì che essendo più forte, possa aumentare il sostegno a famiglie e imprese con gli impieghi. Questa opzione alternativa potrebbe andare più che bene alle Bcc, le banche del territorio che per statuto destinano a patrimonio almeno il 70% degli utili che, nella prassi supera anche il 90%. Una formulazione finale valutata positivamente in ambienti forzisti. Perché rende la tassa più equilibrata, come chiesto dagli azzurri, e al contempo rafforza il patrimonio degli istituti. Anche se per una parte, le banche lasciano a digiuno i soci a cui hanno promesso grandi dividendi.
LA TRATTATIVA
Ecco dunque l’intesa in maggioranza, maturata negli ultimi giorni. Già la scorsa settimana la premier aveva aperto al ritocco dell’imposta. A una sola condizione: che qualsiasi modifica intervenisse «a parità di gettito». Condizione rispettata, se è vero che il Mef stima di ricavare dalla tassa, nella sua attuale formulazione, un tesoretto da circa 2,7 miliardi di euro. Fondi necessari a riempire il salvadanaio della legge di bilancio. Che Palazzo Chigi vuole utilizzare per un intervento a sostegno delle famiglie a basso reddito contro il caro-mutui, aggravato dall’ultimo rialzo dei tassi annunciato dalla Banca centrale europea. A New York, tra un incontro e l’altro al Palazzo di Vetro, Tajani ha confidato ancora una volta a Meloni i suoi timori sul prelievo agli istituti nella sua iniziale formulazione. E in particolare le sue potenziali ripercussioni sull’acquisto di titoli di Stato italiani dalle banche interessate dalla tagliola. Simili considerazioni sono state condivise da Giorgetti, che in questi due mesi ha potuto saggiare da vicino gli umori degli investitori internazionali. Ieri la chiamata tra Tajani e il titolare del Mef con l’annuncio del compromesso, poi i contatti riservati con Antonio Patuelli, presidente dell’Abi. Forza Italia esulta, «ha vinto la linea moderata». La Lega ha premuto fino all’ultimo per la “linea dura”, «andremo avanti sul prelievo», ha assicurato ancora ieri Matteo Salvini. Così sarà. E se i conti torneranno, l’incasso finale non ne risentirà.
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