MONDO OVALE di

Gli inglesi mettono all'indice i club italiani. Hanno ragione, ora qualcuno spieghi

Venerdì 19 Dicembre 2014
Bella scoperta. I nostri club non sono competitivi in Europa. Dopo il 67-0 del Benetton a Northampton, sul campo dei campioni d’Inghilterra, il Times se la prende con i soliti italiani che abbassano il livello delle Coppe. Hanno ragione. Del resto per quale motivo, con la recentissima riforma delle coppe, eravamo finiti nel sottoscala (leggi Challenge Cup e fantomatica terza coppa)? L’Italia ha pensato troppo alla nazionale e poco alle franchigie professionistiche concepite come una sorta di succursale per giovani stagisti, spesso di mediocre talento, usciti dalle Accademie federali. E per far fare minutaggio agli azzurri. Cucchiaio di legno alla Fir per questa imbarazzante situazione. Le franchigie, e prima di loro i club di Eccellenza, hanno bisogno di una propria, autonoma, forza per rimanere nel sitema europeo. Con dignità. Altrimenti prima o poi qualcuno se ne accorge e chiede il conto. MODELLO CENTRALISTA. Ma in Italia, dove il genio con’è noto è di casa, ci siamo inventati un modello capovolto. Il trionfo del paradosso. Si è preteso che fosse la nazionale a vincere e fare vincere club e franchigie. A fare decollare il movimento e ad accendere la passione di un paese per mentalità lontanissimo dai caratteri del rugby. Una scelta di “potere” centralista forse efficace per impedire l’affermazione di altre realtà forti nella geopolitica ovale, ma i cui risultati sportivi sono clamorosamente fallimentari. Club e franchigie sono la base delle nazionali di tutto il mondo, dai loro modelli, dai loro esperimenti, persino dai loro blocchi di giocatori, derivano le fortune delle squadre nazionali. Pensare il contrario è stato come minimo un grave atto di presunzione. Così in Europa continuano a chiedersi come mai dopo 15 anni di Sei Nazioni siamo ancora a questo punto. Qualche dirigente dovrebbe dare spiegazioni. Però almeno un’ammonizione va comminata agli inglesi per la loro miope arroganza. Come non accorgersi che in dieci anni i loro club hanno conquistato appena una volta l’Heineken Cup? Qualcosa non va anche dalle looro parti. Non sarà il caso di ridurre la coppa principale a un annuale confronto bilaterale tra squadre irlandesi e francesi? GRAZIE TREVISO. Spiace solo che in questa vicenda ci sia finito di mezzo il Benetton, semismantellato in estate in seguito all’imponente esodo dei giocatori più forti alla ricerca di un contratto sicuro. Perché, piaccia o no, in tutti questi anni ha cercato di tenere fieramente alta la bandiera dell’Italia, spesso con risultati prestigiosi. NON E’ QUESTIONE DI CT. E’ deciso. Brunel lascerà la nazionale italiana dopo i Mondiali. Lo capisco, ma personalmente mi dispiace. Ritengo abbia fatto un lavoro più che onesto col poco che aveva (in assenza di vittorie significative merita almeno un bonus). L’errore l’ha fatto al suo arrivo, sovrastimando le possibilità immediate dell’Italia (parlò di candidarsi a vincere il Sei Nazioni e di entrare tra le prime sei al mondo) e minimizzando così la necessità di rinnovamento. Ora ne paga le conseguenze. Ma Brunel il rugby lo conosce. Come lo conosceva, pur con idee e stili diversi, chi lo ha preceduto. La scelta del successore a questo punto mi lascia abbastanza indifferente. Con tutto quello che si è detto sopra possiamo chiamare chi vogliamo: Graham Henry, Fabien Galthié o Joe Schmidt. Persino Giove o Eupalla o qualunque altro dio del rugby. Il problema non è l’allenatore, adesso. Ma il tasso tecnico e atletico, oltre che l’ampiezza, dei mezzi a disposizione. (Toni Liviero) Ultimo aggiornamento: 03:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA