Malatrasi: «Sono Saul, il re delle Coppe "tradito" dall'azzurro»

Lunedì 30 Dicembre 2019
Malatrasi: «Sono Saul, il re delle Coppe "tradito" dall'azzurro»
Calto affonda nella nebbia che con la prima luce esce dal Grande Fiume e ci rientra dopo aver nascosto campi, strade e case. Calto è l'ultimo pezzo del Polesine, ad un passo prima del Po; è il paese più piccolo della provincia, 700 abitanti. Saul Malatrasi, 82 anni a febbraio, tre figli, non ha mai voluto lasciare il paese dove ha dato i primi calci a un pallone. «Sono contento di come mi è andata. Nel calcio è facile arrivare, è rimanere che è difficile. Io non mi sono mai stancato, forse la molla è stata la grande povertà che avevo alle spalle, avevo sempre paura che mi mandassero a casa».
Malatrasi in serie A ha giocato per quindici anni: dalla Spal alla Spal, passando per Fiorentina, Roma, Inter, Lecco e Milan. Due scudetti in nerazzurro, uno in rossonero. Certo è l'unico italiano che ha vinto più trofei internazionali con le due squadre milanesi: 3 Coppe Intercontinentali (due con l'Inter, una col Milan); 2 Coppe dei Campioni (Inter e Milan); 2 Coppe delle Coppe, ma anche una Coppa delle Alpi e una dell'Amicizia italo-francese; e per non farsi mancare niente anche due Coppe Italia. Quasi 400 presenze in tutto. Solo tre volte in azzurro, ma ci si è messo di mezzo un brutto infortunio: Ecco, in Nazionale ho giocato poco, l'incidente mi ha tagliato fuori quando ero già sicuro di una maglia ai mondiali del 1962 in Cile.
Unico nel calcio anche con quel nome?
«Saul era il nome del fratello di mia madre morto a pochi mesi. Non sono il solo col nome strano in famiglia, mio padre si chiamava Amer. Di secondo nome ho Verecondo, in paese mi chiamavano tutti Condo, ma per giocare al calcio meglio Saul e nelle figurine ci stava bene».
Come era Calto della sua infanzia?
«Degli anni della guerra ricordo che mia madre mi prendeva per un braccio e scappavamo in aperta campagna dove ci sentivamo più sicuri dalle bombe. Mi diceva sempre: Stai nascosto, stai basso!. Papà era emigrato in Francia, faceva l'operaio a Lione, amava il calcio e aveva giocato da dilettante. È morto lavorando a 34 anni e mia madre si trovata sola con quattro figli. Non ho mai avuto la gioia di abbracciarlo».
Tutto è incominciato su un campo che la mamma controllava dalla cucina
«La paura di mia mamma è che andassi a nuotare nel Po, molti ragazzini annegavano nel fiume. Preferiva che giocassi a pallone davanti a casa dove c'era un bel campo. Ho iniziato nel Calto che faceva la Promozione e aveva giocatori che venivano da Verona ai quali pagavano il viaggio in taxi. Quando sono rimasti senza soldi, hanno puntato sui giovani. Poi sono andato al Castelmassa grazie al capitano dei carabinieri che era un tifoso. Mia nonna s'informò: Ma l'ingaggio te l'hanno dato?. Mi dovevano dare 10 mila lire, le sto ancora aspettando»
Come è stato il debutto in serie A?
«Ho pianto, ma non per gioia, proprio di rabbia. Era il 21 settembre 1958 contro la Juventus e sono stato espulso dopo mezz'ora per un fallo su Stacchini a centrocampo, fortunatamente è finita 0-0. È venuto negli spogliatoi il capitano della Juve, Giampiero Boniperti: Sei andato fuori oggi, ma farai una grande carriera. Per me era una laurea in calcio. Parlò così bene di me al presidente Umberto Agnelli che a fine anno stavo per finire in bianconero, poi andai alla Fiorentina».
È stato l'inizio di una grande carriera
«Ho vestito la maglia viola per quattro anni, ho superato un grave incidente che mi ha costretto a stare 100 giorni ingessato e a saltare i mondiali del Cile. Avevo incominciato bene vincendo la Coppa delle Coppe, era una grande squadra con Giuliano Sarti, Montuori, Hamrin. Abbiamo perso lo scudetto all'ultima partita a Palermo, l'Inter ci ha passato di un punto. Dopo un anno alla Roma, nel 1964 Allodi mi chiamò all'Inter di Herrera».
Come erano i due grandi della panchina Helenio Herrera e Nereo Rocco?
«Herrera non andava molto d'accordo con Picchi, forse ne soffriva la forte personalità. Forse sapevano già che Picchi incominciava a star male, vennero a dirmi che il capitano sarebbe andato a Livorno per riposare tre mesi, proponendomi di giocare da libero. Eravamo dietro al Milan, abbiamo recuperato e vinto. Dopo una partita di Coppa dei Campioni, con Mario Corso siamo andati alla Pinetina, non avevamo sonno e abbiamo passeggiato fino all'alba nei prati dove c'erano fagiani e lepri. A un certo punto vediamo spuntare la Mercedes di Herrera che viene a prendermi per farmi giocare il derby con la squadra delle Riserve: Malatrasi venga su, andiamo all'Arena. Non mi reggevo in piedi, non ha voluto sentire ragioni, ci teneva a vincere tutto: aveva il premio doppio, anche per le Riserve! Rocco era triveneto come me, ci capivamo al volo. Mi inquadrò e mi disse: Ciò mona di un rovigotto, dirigimi tu la difesa. La verità è che quando vinci non puoi trovarti male».
Quando sono arrivate le prime Coppe?
«Dopo la prima Coppa dei Campioni appena vinta a Vienna, per rinforzarsi l'Inter prese me, Domenghini e Peirò. Con l'Inter in due campionati ho vinto tutto: scudetto, Coppa Campioni, Coppa Intercontinentale. Abbiamo battuto in finale il Benfica sotto il diluvio. Abbiamo anche vinto la Coppa Intercontinentale contro l'Independiente al Bernabeu: ho fatto segnare Corso, gli dico sempre che sono stato l'unico capace di fargli fare un gol di testa. Dopo due anni Allodi mi ha mandato a giocare al Lecco con Angelillo e Clerici, al termine ha organizzato una cena ad Appiano Gentile, in quella cena sono passato al Milan di Rocco!».
Poi i successi in rossonero
«Al Milan sono rimasto tre anni: scudetto, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e pure Coppa delle Coppe. Lo scudetto lo abbiamo vinto con 9 punti di vantaggio sul Napoli di Altafini, Sivori e Zoff. La Coppa dei Campioni battendo in finale 4-1 l'Ajax di Crujiff al Bernabeu. Avevo compagni come Cudicini, Schnellinger, Rosato, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Prati, Sormani, oltre naturalmente Rivera che era un grande capitano. Allora il mercoledì quando vincevi si incassava e all'Inter e al Milan si incassava tutti i mercoledì. Certo non fu tutto facile: a Buenos Aires con l'Estudiantes fu terribile, da avere paura. Avevamo vinto 3-0 a Milano, al ritorno Rivera segna nel primo tempo entrando in porta col pallone, praticamente era finita. A quel punto è successo il finimondo, con una terna arbitrale corrotta: calci, sputi, pugni, nel secondo tempo non si è più giocato. Volevano intimidirci, Combin e Prati sono stati inseguiti e pestati di brutto. Quando abbiamo trovato Combin, sembrava Topo Gigio tanto aveva la faccia gonfia per i pugni. Sivori e Maschio ci hanno aiutato e accompagnato in aeroporto, l'aereo ci aspettava in pista da tre ore con i motori accesi».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ultimo aggiornamento: 16:54
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