Il 60enne Gelindo: «Dopo 30 anni torno a correre la maratona di Boston. E prima un po' di Prosecco»

Mercoledì 22 Gennaio 2020 di Angela Pederiva
Gelindo Bordin oggi e 30 anni fa
Tre mesi all’alba. E poi per Gelindo Bordin saranno trent’anni dalla Boston Marathon del 1990, primo campione olimpico (e unico atleta italiano) a vincere la più antica delle maratone annuali che si svolgono nel mondo, ogni terzo lunedì di aprile fin dal 1897. Una ricorrenza che, con il doppio delle primavere di allora sulle spalle e sulle gambe, il 60enne onorerà ripercorrendo i fatidici 42,195 chilometri da Hopkinton a Copley Square, scollinando ancora una volta la Heartbreak Hill in cui spezzò il cuore al tanzaniano Juma Ikangaa per entrare definitivamente nella storia dello sport. Vicentino di nascita (Longare) e trevigiano per professione (Caerano San Marco), l’attuale direttore sport marketing di Diadora è infatti il protagonista di un progetto promosso dall’azienda guidata da Enrico Moretti Polegato: «Parteciperò insieme a una dozzina di nostri clienti, specialisti del running dal Nord al Sud dell’Italia, per dimostrare che la corsa non è solo competizione, ma anche passione, capacità di coltivare relazioni, salute».
Anche un po’ una moda?
«Quella lo è diventata dieci anni fa. Ora invece c’è la consapevolezza che si tratta di un’attività sportiva tutto sommato facile, che non costa troppo e che si può svolgere in qualsiasi momento della giornata. Il bello è che non si corre solo per correre, ma per stare con gli amici, per creare una comunità, per fare dei viaggi con la scusa di una gara». 
Come mai ha deciso di farsi accompagnare a Boston?
«Non perché sia vecchio... (ride, ndr.) ma perché questa volta l’obiettivo non sarà la prestazione, bensì il divertimento. I miei compagni non sono atleti evoluti, ma negozianti appassionati di corsa, che praticano essenzialmente per tenersi in forma come capita a me. Ho la fortuna di lavorare in un’azienda sportiva, dove tanti colleghi condividono questa mia filosofia, sia uomini che donne. Un po’ di agonismo c’è sempre, perché è innato nell’essere umano, ma nel nostro caso è veramente soft».
A quasi 61 anni, quanto corre?
«Tre volte alla settimana, in pausa pranzo d’inverno e dopo il lavoro d’estate, da 8 a 12 chilometri per seduta. Prevalentemente nel Montebellunese, dove ci sono i colli per le salite ma anche i percorsi piatti».
Boston 1990-Boston 2020: cosa cambierà per “Gelo”?
«Tutto. All’epoca per me la sfida era riuscire a rompere la maledizione di Boston, per cui nessun campione olimpico era mai riuscito a vincere una maratona che pareva stregata. Questa volta invece il mio obiettivo sarà ricordare una giornata bellissima per tutta l’Italia».
E il suo ricordo qual è?
«La difficoltà di gestire la gara. Avevo davanti sette africani, partiti come dei razzi per cercare di stracciarmi. Era guerra tra loro e me, perché nel 1988 li avevo battuti all’Olimpiade di Seul e perciò volevano “distruggermi”. Non ho abboccato: li ho lasciati andare e poi li ho ripresi. Ma riuscirci non è stato per niente facile, perché non dovevo sorpassarne solo uno, bensì sette e tutti forti. Dovevo rimanere concentrato e non abbattermi. Il percorso era ondulato, per cui non potevo basarmi sul tempo ma sulle sensazioni».
Più testa che gambe, quindi?
«Sì, è stata una gara più mentale, anche se loro l’hanno messa sul fisico, tanto che a metà gara avevo un distacco di 500 metri. Ma poi ho cominciato a recuperare, al 33° ho raggiunto Ikangaa e sono passato in testa. Da allora in poi ho avuto le energie giuste per arrivare al traguardo per primo».
Lei ha detto: “la maratona la corri ad Atene o a Boston”. Cos’hanno di speciale?
«Le origini di queste due maratone sono accomunate da una storia simile: un soldato deve correre ad annunciare una vittoria. Come i greci sono rimasti legati al mito di Filippide, così gli statunitensi festeggiano l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Per gli americani è Boston la vera Marathon, altro che New York...». 
Gara super-classica, quindi. Ma in questi trent’anni è cambiato il modo di affrontarla?
«Sì. Uso un termine forte, ma nella mia “èra” gli organizzatori puntavano alla sfida dell’uomo contro uomo: si valorizzavano i confronti fra gli atleti e questo avvicinava molto il pubblico. Oggi invece la sfida è solo contro il tempo».
A proposito di tempi, vi siete posti un obiettivo per il 20 aprile 2020?
«Decideremo strada facendo come impostare la gara. Siccome però vorremmo rispettare lo spirito dell’evento, sarebbe bello se riuscissimo a correre insieme, non dico tutti e tredici ma almeno una parte. Per fare questo dovremo mediare le varie velocità. Un buon risultato potrebbe essere 3 ore e 30: vediamo se riusciamo a farcela, in fondo è solo un’ora e mezza in più del 1990...».
Indimenticabile: 2 ore, 8 primi, 19 secondi. Come procede la marcia di avvicinamento?
«Adesso stiamo lavorando sulla resistenza, poi cureremo la potenza aerobica, nella terza e ultima fase mescoleremo le due. Nessun allenatore: so già cosa devo fare».
Sa già anche di dover rispettare il rito della pastasciutta notturna, la sera prima?
«Certo che sì. Ci cucineremo la pasta alle 2: penne, Parmigiano e olio extravergine di oliva. Magari non dovrei dirlo, ma non guasterebbe anche un buon bicchiere di Prosecco...». 
Ultimo aggiornamento: 13:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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