ROMA La rivincita del Sultano è cominciata da FaceTime. Dal video sul telefonino in cui Recep Tayyip Erdogan, «papà Tayyip» come lo chiama chi lo ama e in Turchia come s’è ancora una volta dimostrato in queste ore ad amare il presidente del «miracolo economico» sono in tanti, ha detto al suo popolo: «Resisti contro i golpisti!». Parole pronunciate proprio tramite quella tecnologia internettiana che, dal tempo delle proteste anti-governative di piazza Taksim nel 2014 e anche da prima, Erdogan boicotta e stigmatizza così: «Twitter è una minaccia per il nostro Paese». Di fatto, dopo la notte dei carri armati e del loro flop, il Sultano resta Sultano. E che lo si ami o lo si odi, il presidente turco continuerà a suscitare passioni forti come accade soltanto ai grandi personaggi. Se Ataturk è stato il padre della Turchia moderna, Erdogan resta il ritratto della Turchia contemporanea. Capace - tra mille svolte e contro-svolte, rotture e riavvicinamenti sempre all’insegna di un pragmatismo cinico ma spesso lucido nelle sue asprezze da uomo agguerrito - di guardare al mondo islamico e di mantenere le alleanze strategiche importanti.
A cominciare da quelle con gli Stati Uniti e con la Germania, come s’è visto durante la notte del putsch ad Ankara. Lì dove questo europeista ma pur sempre musulmano, questo uomo dal pugno di ferro o dal polso fermo, questo outsider dell’establishment turco diventato da oltre dieci anni padre-padrone della nazione da che era piccolo venditore di limonate durante l’infanzia nel rione popolare di Kasimpasa a Istanbul, ha fatto edificare per la sua grandeur neo-ottomana una sede presidenziale che è trenta volte più grande della Casa Bianca e quattro volte più spaziosa della reggia di Versailles.
Da bambino oltre alle limonate vendeva simit, il tipico anello di pane con semi di sesamo, e mentre studiava alla scuola islamica e prima di laurearsi in economia faceva il parcheggiatore fuori dai club esclusivi della borghesia e ora guida 81 milioni di turchi da cui si sente rilegittimato. In un rapporto di identificazione tra il leader e il suo popolo, che è stato strettissimo fin dalla prima vittoria elettorale nel 2002. Erdogan, in questi quasi 15 anni di potere, tra trionfi economici e riforme (specie nel primo mandato), tra attitudine autoritaria (che lui nega aspramente) e capacità di parlare fuori dai denti il linguaggio della gente comune, ha incarnato una certa idea di Turchia. E dalla maggioranza della popolazione è stato, e continua ad essere, riconosciuto come il simbolo di uno spirito nazionale estremamente orgoglioso e determinato a contare sullo scacchiere internazionale.
CONSERVATORE
Ma non c’è integralismo, perché rischierebbe di pregiudicare l’estremo pragmatismo, nello stile freddo e insieme impulsivo del personaggio che in 13 anni ha fatto triplicare il reddito pro-capite (ma i cedimenti economici generali non stanno risparmiando adesso neppure la Turchia e la corruzione ha cominciato a riaffacciarsi) nel suo Paese. Piace agli imprenditori perché è un grande venditore all’estero del suo Paese e delle sue aziende e non ha paraocchi di tipo economico. E’ popolare perché comunica quelle caratteristiche di forza e carisma necessarie per governare una società musulmana (ma anche non musulmana).
FASE NUOVA
La rivincita del Sultano: così ha sconfitto il golpe
Domenica 17 Luglio 2016 di Mario Ajello
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