È stallo nella notte sulle conclusioni del Consiglio europeo. A paralizzare i lavori dei Ventisette leader, nella parte relativa alle migrazioni, sono Polonia e Ungheria. Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán contestano metodo e contenuto del patto raggiunto in Lussemburgo l’8 giugno scorso dai ministri dell’Interno Ue. I due, entrambi politicamente vicini a Giorgia Meloni, non hanno digerito che due settimane fa la riforma sulle regole comunitarie dell’immigrazione era stata presa a maggioranza qualificata e, quindi, già nelle conclusioni del vertice in corso fino a notte fonda, chiedono che venga ripristinata l’unanimità come in tutti i passaggi compiuti dal 2016 in avanti. Altrimenti, hanno spiegato ai leader presenti a Bruxelles, si sono anche detti disposti a mettersi di traverso, col rischio di far saltare in toto i due paragrafi dedicati al capitolo migratorio.
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IL CAPITOLO TUNISIA
È l’esempio Tunisia che deve fare scuola ed essere replicato nel resto del bacino del Mediterraneo ha infatti evidenziato Meloni in un passaggio del suo intervento durante il dibattito a porte chiuse sulla migrazione. Il memorandum con Tunisi è in dirittura d’arrivo e servirà per definire i contorni dei 900 milioni di euro promessi (insieme a un assegno di 150 milioni da subito) al presidente Kais Saïed dalla numero uno della Commissione Ue Ursula von der Leyen in occasione della visita di inizio giugno proprio con Giorgia Meloni e il premier olandese Mark Rutte. La logica della partnership è evidenziata dal posto che occupa la Tunisia nell’ordine dei lavori del Consiglio europeo. Come ha sottolineato la stessa Meloni: non strettamente sotto il capitolo dedicato alle questioni migratorie, ma, durante la cena di lavoro, a titolo di interlocutore alla pari in quello dedicato alle relazioni internazionali. Motivo per cui - tra l’altro - il paragrafo sul Paese nordafricano si salverebbe dalla tagliola voluta da Varsavia e Budapest. In ogni caso la questione chiave rimane «aiutare la Tunisia», anche ci dovessero essere ancora dei ritardi, in particolare perché resiste la fronda di Paesi Ue che vincolano la conclusione del memorandum al parallelo accordo di Tunisi con il Fondo monetario internazionale per realizzare le riforme legate agli aiuti dell’organismo globale.
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IL COMPROMESSO
Sullo sfondo, ma neppure troppo, del confronto tra i leader rimane l’altra dimensione della migrazione, quella interna. Al netto delle fibrillazioni notturne, dalla missione brussellese della delegazione italiana trapela la soddisfazione per l’intesa sancita in Lussemburgo che, secondo Meloni, si è rivelata «un buon compromesso, e per questo l’Italia l’ha sostenuta». In particolare perché riconosce il principio della solidarietà obbligatoria in favore dei Paesi di primo arrivo, come il nostro: se optano per la redistribuzione agli Stati sarà imposto di prendersi in carico dei migranti attraverso i ricollocamenti oppure, per un meccanismo di compensazione (offset), di non riceverne di provenienti dai paesi di primo sbarco ma con l’obbligo a quel punto di trattenere coloro che sono arrivati con i movimenti secondari.
In alternativa alle redistribuzioni volontarie, le altre capitali potranno fornire assistenza tecnica, o versare indennizzi economici da 22 mila euro a migrante ad un fondo apposito con cui la Commissione finanzierà le misure di prevenzione dei Paesi di origine e transito. Passaggi verso cui, appunto, Polonia e Ungheria fino a notte inoltrata non sembrano disposte a concedere alcunché. Varsavia in particolare lamenta che questo tipo di strategia condurrebbe ad un’apertura indiscriminata delle frontiere. Morawiecki, a cui Meloni dovrebbe fare visita per un bilaterale martedì, contesta la stessa ricetta dei ricollocamenti su cui punta a fare un referendum nazionale in autunno e va in pressing su Bruxelles per ottenere da subito i fondi che spettano agli Stati che accolgono i profughi ucraini.