LA RABBIA
PEDAVENA «Mia mamma non poteva vivere in eterno, ma non poteva

Venerdì 1 Maggio 2020
LA RABBIA
PEDAVENA «Mia mamma non poteva vivere in eterno, ma non poteva neanche morire in questo modo barbaro». Il lutto che in queste ore sta vivendo la dottoressa Jole Dal Pont per la perdita della madre, contagiata in casa di riposo padre Kolbe, si mescola alla rabbia per tutto quello che evidentemente è andato storto in quella struttura, con il record di contagi (quasi un centinaio) e dove si continua a morire. Clara Trevisson di Belluno, classe 1921, avrebbe compiuto 99 anni il 27 ottobre. Un'età di cui però non c'era traccia nel suo sorriso e nella sua salute: condizioni talmente buone da consentire a fine marzo un intervento in anestesia totale all'ospedale di Feltre, per la periodica sostituzione di uno stent alle vie urinarie. Poi il primo aprile la dimissione, con tampone negativo e il rientro in Padre Kolbe dove la 98enne era ospite. Ma da quel momento in quella struttura dove è scoppiato il più grosso focolaio covid in provincia, tutto c'è stato meno un'adeguata assistenza, a parere della figlia e non solo. E ora chiede giustizia.
LA TESTIMONIANZA
«Prima di tutto - afferma Jole, contattata al telefono - voglio specificare che mia mamma non era in un area di parcheggio: era seguita giornalmente da me o da una persona che incaricavo. Era una rosellina. Il traguardo dei 100 anni li aveva in bocca quotidianamente e quando è uscita dall'ospedale era negativa al coronavirus». E poi il racconto di questi due mesi di paura: «Ho faticato non poco sia per avere notizie sulle condizioni di mia madre che per mettermi in contatto sia con lei che con il personale. Le cose sono peggiorate dopo il primo aprile. Nella struttura le mascherine ed i guanti venivano usati non correttamente fin dalla metà di febbraio e la gestione dell'emergenza non sembra sia stata proprio da protocollo. Intorno al 15 di aprile vengo a sapere che mia mamma era positiva».
LA PAURA
«C'è confusione qui dentro, voglio andare via da qui», diceva la madre alla figlia, dopo che è scoppiato il contagio nella Rsa. Ma ormai era impossibile portarla a casa: era positiva. «Ora farò di tutto per sapere tutti gli spostamenti che le han fatto lì dentro - prosegue la figlia - e che tipo di assistenza le hanno dato». Jole rileva che dopo alcuni giorni casualmente è venuta a sapere che tutti gli ospiti del II° piano, sua madre compresa, erano stati trasferiti al I° piano. Mia madre doveva essere rispettata da viva».
IN OSPEDALE
Il covid consuma Clara che diventa sempre più debole, ma solo verso le ore 22 del 25 aprile, 10 giorni dopo il tampone positivo, viene trasferita all'ospedale di Belluno, in area Pneumo Covid, senza che preventivamente Jole venisse avvisata. «Forse se fosse stata portata lì prima - si chiede la figlia- . In ospedale al San Martino ha trovato personale, dal corpo medico, infermieristico, professionale e umano». Li vuole ringraziare e fare un encomio anche per la loro umanità, gentilezza, tenerezza sia nei confronti del paziente che dei familiari. «Meritano un plauso -dice -. Inoltre sono stati estremamente disponibili per effettuare le videochiamate a richiesta dei parenti ed assistono il paziente anche durante le medesime». «Grazie a queste chiamate - conclude -, l'altra sera sono riuscita a dirle ti voglio bene mamma». Poco dopo, la sera del 29 aprile Clara muore. «Accetto che mia madre sia morta in questo modo barbaro - conclude -, inteso come barbaro il fatto che una persona, essendo affetta da malattia infettiva, non può avere nessun famigliare vicino che le possa stringere la mano in questa vita terrena. Però se qualcuno è stato responsabile di quel contagio in Rsa, per negligenza in quella struttura, dovrà risponderne di fronte alla legge».
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