L'INDAGINE
PADOVA Nella penombra di quella stanza in cui Antonio Genesio Mangone

Giovedì 17 Ottobre 2019
L'INDAGINE PADOVA Nella penombra di quella stanza in cui Antonio Genesio Mangone
L'INDAGINE
PADOVA Nella penombra di quella stanza in cui Antonio Genesio Mangone riceveva gli imprenditori che gli dovevano un favore, il 54enne calabrese si trasformava in un boss che sembrava uscito da un film. Ma i tre protagonisti delle altrettante estorsioni descritte nell'ordinanza, non sono gli unici a essere finiti nelle mani di Mangone. Ci sono altri 7 imprenditori padovani (ma anche tre veneziani, un vicentino, due trevigiani e un rodigino) che sarebbero finiti nella rete. Però, terrorizzati, non vogliono parlare. Tanto che ieri mattina i carabinieri si sono presentati nelle loro case e aziende con un decreto di perquisizione dell'Dda. Ora che il vaso di Pandora è stato scoperchiato, la speranza degli inquirenti è che anche loro vuotino il sacco rivelando altri episodi di usura ed estorsione.
Le tre vittime già identificate hanno raccontato come venivano intimidite. Due di loro erano già finite a marzo nell'operazione Camaleonte del comando provinciale dei carabinieri di Padova. Si tratta di Arcana Adrian, giovane albanese di Rubano e Leonardo Lovo, l'imprenditore edile di Campagna Lupia originario di Camposampiero, che era finito in cella perché accusato di aver svolto l'attività di riciclaggio del denaro sporco per conto della cosca.
È lui che ha parlato per primo durante l'interrogatorio in marzo davanti al pubblico ministero: spiegava che doveva restituire un prestito da 300mila euro con un tasso del 20% al mese a un calabrese che gli aveva prestato quei soldi per avviare un'attività imprenditoriale nel meridione. Un'impresa che presto è fallita e che l'aveva lasciato in un mare di guai. Il Pm nell'ordinanza precisa che Lovo «aveva posto in essere l'attività illecita di false fatturazioni anche per far fronte alle difficoltà economiche derivanti da precedenti prestiti ottenuti con l'applicazione di tassi usurai». E così, per allentare la pressione nei propri confronti, accettava di presentare ai propri estorsori altri imprenditori che potevano essere interessati a richiedere prestiti, arrivando addirittura «a partecipare alle successive attività estorsive commesso in danno a quest'ultimi».
Lovo soldi non ne aveva, così ha pensato di iniziare a fare del nero per poter ripagare gli strozzini, che si avvalevano di Mangone come riscossore. Nessuna delle tre vittime pensava che un giorno sarebbe stata protagonista di scene in stile C'era una volta in America. D'altro canto la mafia, al Nord, la conosciamo solo per averla vista in televisione. Eppure la piovra è diventata paurosamente reale per Lovo quando un'auto gli tagliò la strada rischiando di farlo schiantare. Era il chiaro segnale che le minacce del boss si sarebbero realizzate se lui non avesse obbedito. Esasperato, alla rata in contanti per saldare il suo debito, aggiunse - nella speranza di arrivare alla quota richiesta - anche un orologio Franck Muller, una catenina e un bracciale in oro e diamanti.
E nelle pagine dell'ordinanza si racconta un episodio che ben descrive quello che succedeva quando un debitore si trovava faccia a faccia con l'ndranghetista. Una sera, Adrian Arcana, il titolare di una ditta individuale di Rubano, indagato a marzo, a cui era stato disposto il divieto di esercitare l'attività d'impresa, si presentò dal boss perché pretendeva di riceve il denaro - 43mila euro - per un lavoro eseguito in un cantiere di un amico di Magone, che, invece, gli ordinava di non richiedere mai più quel pagamento. Il piccolo imprenditore, allora, fece per alzarsi per non ascoltare più il calabrese, che si trasformò in una furia. Arcana si trovò così ricacciato pesantemente sulla sedia da una manata del boss, che poi gli pizzicò vigorosamente le guance a mo' di scherno, assicurandogli: «Io sono calabrese, siamo una famiglia, siamo quelli che tagliamo le gambe. Tu hai la famiglia, sei una persona per bene, affidati a noi. Questa è una roba nostra. L'assegno devi darcelo a noi, che ci sistemiamo noi».
A subire le pressioni dell'ndranghetista c'era anche l'impresario Mario Borella, titolare della Golden Costruzioni di Camponogara (Venezia). Da lui Magone pretendeva di comprare un negozio a Dolo senza versargli il pagamento da 75mila euro. «Sono una persona onesta - gli ha intimato l'ndranghetista - ma stai attento che se non fai effettivamente, le cose vanno anche a finire male. Tu devi venire a firmare (la vendita dell'immobile, ndr), che tu voglia o no». Così il titolare della ditta firmò al notaio Maculan di Saonara un documento in cui asseriva di non aver più nulla da pretendere dall'ndranghetista, anche se i soldi non li aveva mai visti.
Marina Lucchim
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