Lavori forzati sì, ma con umanità: il narcotrafficante non va estradato

Domenica 12 Agosto 2018
Lavori forzati sì, ma con umanità: il narcotrafficante non va estradato
LA SENTENZA
VENEZIA Per due volte la Corte d'Appello di Venezia ha provato a far estradare in Ucraina un detenuto nel carcere di Padova per traffico di stupefacenti. Ma per due volte la Cassazione ha bloccato la consegna per il rischio che l'uomo, di nazionalità moldava e di madre russa, possa essere sottoposto «a trattamenti disumani e degradanti», anche a causa della guerra del Donbass in corso. Questo è il timore ribadito nell'ultimo pronunciamento degli ermellini, che hanno rinviato il fascicolo in laguna per un terzo esame, il quale però non dovrà più occuparsi della possibile condanna ai lavori forzati: è stato infatti verificato che, nel caso, quell'attività sarebbe regolarmente contrattualizzata e retribuita.
LA VICENDA
Protagonista della vicenda è Maxim Diuligher, recluso al Due Palazzi da tre anni. Nell'agosto del 2015 la polizia aveva effettuato un controllo in un parco pubblico alla Guizza: già noto alle forze dell'ordine per una serie di reati contro il patrimonio risalenti al periodo 2009-2010 e in Italia senza fissa dimora, il giovane era risultato destinatario di un mandato di cattura, emesso sette mesi prima da un Tribunale ucraino per un giro di oppioidi, accusa che da quelle parti potrebbe costargli fino a dieci anni di prigione. Da allora, tuttavia, l'estradizione reclamata da Kiev non è mai avvenuta. Il 18 febbraio 2016 i giudici di Appello aveva dichiarato sussistenti le condizioni per accogliere la domanda, ma il 28 giugno la Cassazione aveva annullato quella sentenza. Non che la Suprema Corte ritenesse infondato il requisito dei gravi indizi di colpevolezza, anzi. Il punto era che i magistrati veneziani non avevano «valutato l'eventualità che il ricorrente, di nazionalità moldava ma di madre russa, ed egli stesso filo-russo, anche in forza dell'attuale conflitto russo-ucraino potesse essere sottoposto, in sede di esecuzione della pena, a trattamenti disumani e degradanti, ovvero a forme di lavoro forzato, come pure avevano dato conto i rapporti annuali di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch». Per questo era stato disposto lo svolgimento di «un'indagine mirata».
L'APPROFONDIMENTO
Nel corso dell'approfondimento, la Corte d'Appello aveva acquisito un rapporto sui pronunciamenti della Corte europea per i diritti dell'uomo «con riferimento a torture da parte delle forze dell'ordine e condizioni di detenzione degradanti»; 13 sentenze integrali della stessa Cedu su casi di reclusione disumana; altre 11 per maltrattamenti durante gli interrogatori; report di Amnesty International e Onu. Inoltre i magistrati lagunari avevano chiesto alle autorità ucraine informazioni su tempi, luoghi e condizioni della detenzione. Dopo aver ricevuto risposta, il 18 maggio 2017 era così stata nuovamente accolta la richiesta di estradizione.
LE MOTIVAZIONI
Diuligher, assistito dall'avvocato Vittorio Manfio, ha però fatto nuovamente ricorso. E per la seconda volta la Cassazione l'ha accolto, disponendo di verificare in particolare due aspetti: se il 35enne «possa essere sottoposto ai metodi di violenza finalizzati all'accertamento della sua responsabilità» e quale incidenza di rischio possa rivestire il suo essere «filo-russo». Quanto invece ai lavori forzati, la Suprema Corte ha escluso che possano esserci pericoli, stando ai riscontri: «I detenuti vengono coinvolti in lavori retribuiti, di regola, nelle fabbriche o in imprese di proprietà del governo con contratti di lavoro a tempo determinato conclusi tra gli stessi detenuti e la colonia penitenziale, a condizione di garantire loro una custodia ed un isolamento adeguati».
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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