Carlo Goldoni, il genio del teatro esiliato a Parigi lontano dall'amata Venezia

Lunedì 16 Marzo 2020 di Alberto Toso Fei
Carlo Goldoni (disegno di Bergamelli)

A nove anni abbozzò la sua prima piccola sceneggiatura per una commedia teatrale. D'altronde, già allora era descritto come uno scolaro “precoce”, che fin da quando ebbe il dono della lettura predilisse gli autori comici e sviluppò una passione quasi maniacale per il teatro. D'altronde il suo destino era scritto anche nella nascita: Carlo Goldoni nacque infatti a Venezia il 25 febbraio 1707, durante gli ultimi giorni del carnevale, un momento felicemente propizio per il suo genio comico e teatrale, che lo portò a diventare la chiave di volta tra l'antico e il moderno.

Nemmeno l'attività di avvocato (voluta fortemente dalla madre, Margherita Salvioni) riuscì a distoglierlo dalla sua vera passione. E in molti luoghi che frequentò per destino o per lavoro lasciò un segno drammaturgico del suo passaggio: Non a Perugia o Rimini (dove il padre Giulio aveva trasferito la famiglia e da dove Carlo scappò per raggiungere Chioggia al seguito di una compagnia di comici), ma a Chioggia stessa – con le intramontabili “baruffe” – a Livorno (dove ambientò la “Trilogia della Villeggiatura” e dove esiste un altro teatro “Carlo Goldoni” oltre a quello di Venezia – che sorge dove stava il “suo” San Luca, teatro prediletto assieme al Sant'Angelo e al San Samuele) o a Pavia: qui, studente diciottenne del collegio di diritto “Ghisleri”, scrisse una satira (andata perduta) sulle virtù e vizi delle ragazze del luogo; il collegio fu preso d'assedio da genitori e parenti delle giovani donne pavesi, e il giovane Carlo temendo per la sua incolumità fisica ritornò a Chioggia.



Prima e dopo queste esperienze visse anche a Udine e Vipacco, a Roma e a Bologna, in Slovenia e in Tirolo, a Modena (dove interruppe nuovamente gli studi), a Feltre e Bagnacavallo; a Verona, dove nel 1734 incontrò il capocomico Giuseppe Imer e a Genova, dove conobbe e sposò Nicoletta Conio, per tornarsene finalmente a Venezia. Malgrado la grande mole di lavori già prodotta fino a quel momento, la sua prima commedia - “Momolo Cortesan” - è del 1738.

Da allora in poi fu un crescendo, che lo portò nel 1750, per una scommessa col suo pubblico e col capocomico Girolamo Medebach, a scrivere la bellezza di sedici commedie in un anno: è impossibile riassumere la mole di lavoro di Goldoni nell'ambito della commedia: “I Rusteghi”, “La locandiera”, “La bottega del caffè”, “La vedova scaltra”, “La famiglia dell'antiquario”, “Sior Todero brontolon”, “Una delle ultime sere di carnevale”, oltre alle già citate “Trilogia della Villeggiatura” e “Le baruffe Chiozzotte” sono solo alcuni dei primi titoli che comunemente salgono alla mente, quasi tutti scritti in lingua veneta e tutti incentrati su vicende piccolo borghesi se non addirittura popolari. Carlo Goldoni portò il popolo e le sue storie sul palco. E il popolo apprezzò questa rivoluzione, che sta ancora oggi alla base del teatro moderno.

Non così fu invece per i critici e per i suoi rivali diretti: la novità del suo teatro gli attirò gli strali prima dell'abate Pietro Chiari e poi di Carlo Gozzi, che nel suo essere fautore di un teatro “all'antica” ne fu critico spietato e acerrimo nemico, ma che finì paradossalmente per farne l'analisi migliore mettendo in luce l'assoluta novità del teatro goldoniano, i suoi “pericoli” politici, ideologici e perfino pedagogici, e la straordinaria combinazione di efficacia artistica e realismo.

Alla fine però tanto astio lo amareggiò; nell'aprile del 1762 Goldoni lasciò Venezia e si trasferì a Parigi, insieme alla moglie e al nipote Antonio, per divenire autore della “Commedie Italienne”, stabilendosi successivamente a Versailles come maestro di lingua italiana della principessa Adelaide, figlia di Luigi XV. Provò successivamente a cimentarsi ancora col teatro, senza successo; alla fine la rivoluzione lo lasciò privo di pensione, povero e ammalato. Carlo Goldoni morì il 6 febbraio 1793, non facendo più ritorno nella sua amata Venezia. Oggi le sue ossa sono andate disperse. Venezia lo ricordò novant'anni più tardi con una statua di Antonio Dal Zotto. E ancora oggi il suo sorriso bonario guarda passare turisti e veneziani dal suo piedistallo di campo San Bartolomeo.
Ultimo aggiornamento: 15:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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