Arrotini addio: «Costretti a chiudere
perché schiacciati da troppe tasse»

Lunedì 3 Novembre 2014 di Paola Treppo
Arrotini addio: «Costretti a chiudere perché schiacciati da troppe tasse»
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Tasse, posteggi e occupazione suolo, commercialisti, lunghe e costose burocrazie, balzelli e pagamenti d'ogni tipo da onorare. Così anche gli arrotini gettano la spugna e decidono di smettere di fare questo antico, tradizionale e utile mestiere.



«Un pezzo di storia che si perde, purtroppo. Ma che ci posso fare? Io chiudo. Non ci sto dentro. Mi mangio la pensione, non mi resta niente». Ha 73 anni, Ferdinando Negro, e vive a Stolvizza di Resia, borgo da cui arrivano quasi tutti i "gue" del Friuli, una località dove l'arte di affilare le lame è raccontata in un museo a tema e dove si organizza ogni anno una festa incentrata sulla professione di questi abili e coraggiosi artigiani-commercianti.



«Faccio l'arrotino da quando avevo 10 anni; mi aveva insegnato il papà. Per più di mezzo secolo mi sono guadagnato da vivere onestamente con questo lavoro - racconta -. Mi sono sposato, ho avuto tre figli che ho fatto studiare, e adesso ho anche un nipote. Se dovessi mantenerli oggi, i miei cari, non potrei mai farlo, perché le tasse sono troppe e i soldi se ne vanno tutti lì. Così sa cosa succederà? Che si perderà anche questo mestiere».



E cosa farà dopo aver chiuso l'attività? Provoca, Negro: «Non vede che vanno a fare tutti a nero le lame... È pieno, poi, di tanti mascalzoni che dicono di essere "gue" ma non lo sono, e sparano cifre folli per affilare, anche 100, 200 euro. Prezzi assurdi. Ecco il modo che ha il nostro Paese di agevolare chi porta avanti una tradizione, unica, vera: ci schiaccia, vuole eliminarci».



Negro frequenta da sempre il mercato di Cervignano, e anche quello di Tarcento. Non è il solo che ha deciso di chiudere baracca. La pensa esattamente allo stesso modo anche Gino Buttolo, pure lui originario di Stolvizza di Resia: «Io oggi ho 65 anni e ho imparato ad affilare con il papà che ero bambino. Si partiva in corriera da Stolvizza a Gemona. Poi da lì andavano da un contadino che ci teneva la carriola, la "craciula", che poi portavamo a mano per strada fino a Buja, Tarcento, Dignano, Latisana e a Concordia Sagittaria. Era un lavoro durissimo e si stava via settimane. A dormire nei granai d'estate e nelle stalle con le mucche in inverno. Il contadino ci portava la sera il latte e un po’di polenta e formaggio. In cambio gli affilavano tutti gli attrezzi, dalle 4 alle 6 di mattina. Era un baratto. Poi si tornava di porta in porta a bussare per lavorare».



Da grande Buttolo avvia la sua attività da solo, prima in bici poi col furgone. «Sono andato in pensione ma, per passione, ho continuato a fare il "gue". Oggi però, tutto è cambiato. Troppe tasse, troppi pagamenti, troppa burocrazia. Non lo dico solo io ma anche i miei colleghi. Per far fronte alle spese la mia pensione se ne va tutta. Non mi resta nulla. Sono costretto a smettere. Peccato». E cosa farà, Buttolo? «La vita ci ha insegnato ad arrangiarci fin da bambini, a fare sacrifici, a sopportare la fame, e sentirle se non eseguivamo bene le affilature. Andrò a fare bosco nella mia valle, mi metterò a coltivare la terra, magari l'aglio di Resia. Qualsiasi altra cosa che non strangoli il mio portafoglio dopo più di mezzo secolo di sacrifici, passione e amore per il mio lavoro. Auguro a chi vorrà portare avanti questo mestiere di essere caparbio e forte, anche se i giovani di oggi non mi pare abbiano voglia di far tanta fatica per guadagnarsi il pane».
Ultimo aggiornamento: 4 Novembre, 10:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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